La strada era fin troppo
illuminata per essere così in periferia, eppure l’ombra folta dei sicomori
restituiva all’asfalto malandato la sua doverosa oscurità. L’autoradio mal sintonizzata
oscillava da un fastidioso predicozzo cattolico ad un imprecisato brano anni 50
che rendeva l’atmosfera intermittente e surreale.
Si era voluta sedere davanti. Lo
faceva spesso. Qualcuno le aveva detto che era sconveniente, che nei taxi ci si
mette dietro, ma lei aveva sempre sorriso senza argomentare. E questa volta, il
suo accompagnatore non aveva osato dirle nulla.
L’autista, pallido di carnagione
e reso ancor più bianchiccio da un’alopecia totale, guidava nell’oscurità senza
nemmeno bisogno di guardare il vistoso display di navigazione. Ogni tanto, ad
integrare i disturbi elettrostatici degli altoparlanti, provenivano suoni e
voci sparute di un canale radio privato che l’uomo al volante sembrava
ignorare. Non aveva pronunciato una sola parola, nemmeno per chiedere
l’indirizzo, dato che gli era stato scandito prima ancora che le portiere si
fossero richiuse.
Ci vollero circa quindici minuti.
Arrivati sul vialone alberato, l’uomo seduto sul sedile posteriore si sporse
verso il guidatore e sussurrò: “Da qui in poi rallenti molto, per favore. Vada
proprio a passo d’uomo. Devo ricordare il punto preciso”, mentì lui. Il
tassista concesse un cenno di assenso e fece come gli era stato richiesto. La
donna accanto a lui continuava a guardare dal proprio finestrino, stropicciando
con le dita un maglione di lana azzurro in una sequenza di gesti lenta e compulsiva.
“Ancora più piano, per favore. Tanto
non passa nessuno”, insisté lui. Di lì a qualche secondo, sentenziò. “Qui. E’
qui”. Con una frenata minuscola, la vettura inchiodò quasi in mezzo alla
strada. “Aspetti un attimo qui”. Prese in mano la giacca e si spostò sull’altro
lato per uscire dalla portiera destra ma, appena lei focalizzò quell’azione, lo
bloccò. “No no. Stai qui. Vado da sola”.
“Ma lasciami..”
“NO. Ti prego”, lo interruppe lei.
“Ti prego, ti prego..”, continuò sottovoce, in un loop che dissolse nel
silenzio, finchè lui non rimase immobile. Accese la lucina centrale sopra la
sua testa, si chinò per qualche secondo e riemerse con le proprie scarpe in
mano. Le avvolse alla meno peggio nel maglioncino ed aprì la portiera.
“Ma che fai?”, urlò l’uomo.
Lei si voltò di profilo, con un
gesto elegante e perentorio. “Non ti preoccupare. È una cosa mia. Ti chiedo
solo di rimanere qui seduto e di non voltarti. Finché non torno. Ti giuro che
faccio più in fretta di quello che pensi”.
Non gli diede il tempo di dire
nulla perché con le ultime sette parole aveva già valicato i confini della
macchina e perso ogni interesse per le spiegazioni. I suoi piedi sul nudo
asfalto iniziarono a procedere, con lentezza quasi agonizzante, verso una meta
invisibile. Il taxi alle sue spalle rimase fermo lì, come fosse in panne in
mezzo al nulla, con la portiera destra ancora aperta. Un suono meccanico di
freno a meno lo ancorò al suolo mentre il rombo del motore si spegneva,
lasciando vivi soltanto la debole lucina gialla sul guidatore e i ronzii sempre
meno puliti di una musica senza ormai identità.
Le gambe sottili di lei si
muovevano quasi a scatto. A pochi metri, sulla sua sinistra, una villetta
familiare – con tanto di altalena sul portico e maestoso albero in giardino –
sembrava osservarla senza rumore, attraverso l’indiscreto occhio di una porta
inspiegabilmente semiaperta.
L’arresto fu improvviso. Le gambe
le si bloccarono. Il suo attento sguardo da rabdomante spaventato aveva
finalmente raggiunto ciò che cercava. Era lì. Non c’erano dubbi. I resti di una
debole macchia persistente erano ancora riconoscibili nella loro macabra forma.
Le anomalie di quel tratto stradale, già di per sé abbondanti, acquisivano una
conformazione ancor più marcata. L’impressione era che potesse esservi caduto
un pesante ramo, o che uno smottamento avesse spezzato di poco la continuità
del percorso. Del resto, per lei sarebbe stato così splendidamente verosimile,
quasi rassicurante.
Avanzò di qualche passo fino a raggiungere
la forma scura sull’asfalto. Una volta là, si trovò a fare una impercettibile
marcia sul posto. Sentiva sotto i suoi palmi infreddoliti tutte le asperità e
granulosità di quel metro quadrato una volta integro. Poi sollevò la punta del
piede e avvicinò l’alluce alla crepa, cercando di ripercorrere con il tozzo
dito quell’irregolarità. Come in fondo sperava, nel farlo si riempì di tagli e
sentì la fatica immane dell’operazione. La sua vestaglietta rosa, rinforzata
solo da un golfino sbiadito, ondeggiava al venticello tardo estivo di quella
cornice alienante. Le sue mani stringevano ancora il maglioncino appallottolato
attorno alle espadrillas. Le stesse scarpe basse con cui, quella sera, cercava
a fatica di aderire ai pedali. Riallineò i piedi scalzi e si chinò con
insospettabile leggiadria. Avvicinò le braccia a quella linea frastagliata e sporca
che l’aveva ferita e liberò la presa, spargendo tutto in terra. Quando tornò su,
affrontò il quadretto di orrore davanti a sé cercando invano di non rievocare
la dinamica di quell’antico istante. Di non riascoltare il fragore dei vetri nè
lo stridio del metallo e della plastica. Di non pensare a quanto suo fratello
stesse bene con quel maglione un po’ rovinato. Di non continuare a odiare se
stessa come invece avrebbero per sempre fatto i suoi genitori.
Rimase per un tempo indefinito a
fissare quel tessuto e quelle scarpe. Se ne stavano lì, elementi caotici di uno
scenario estraneo. Icone senza luce e senza storia. Tracce di un what if macabro e poetico che non
smetteva di ossessionarla.
“È tutto sbagliato”, sibilò muovendo appena le labbra. Strinse i
pugni e si coprì gli occhi coi polsi, affondandoli nelle palpebre. “Tutto, tutto sbagliato”, continuò a ripetere
nella sua mente infinite volte.
E finalmente, per la prima ed
ultima volta, si lasciò piangere.
Tornò nell’abitacolo a passo più
che spedito. Si tirò dietro la portiera senza sbatterla. Con il dorso della
mano, si sfregò ancora un paio di volte agli angoli degli occhi. Si girò e fece
un cenno. “Ok, possiamo andare”, disse l’uomo al tassista, come se fosse stata
una sua decisione. Gli occhi di lei caddero d’istinto sul tassametro. Per un
attimo si stupì che non fosse ripartito da zero. Solo per un attimo. Con un
movimento incerto, tolse il golfino dalle spalle e se lo stese sulle gambe
scoperte.
Da dietro, una mano tiepida le si
appoggiò con delicatezza sulla spalla tremante. A pochi centimetri dal suo
orecchio arrossato, le si accostò una voce calda e premurosa.
“Come va?”, chiese lui.
“Ho un po’ freddo”, concluse lei.