domenica 27 giugno 2010

La specularizzazione di Halley

Io ti dissi
ciao
,
tu dicesti
addio
.

giovedì 24 giugno 2010

Song 3


Ecco tre segnalazioni musicali per iniziare l'estate nel più malinconico dei modi.
Ma sono state tre scoperte eccezionali.
Impossibile non condividerle.
Buon ascolto. E buona traduzione.


Joshua Radin - Someone else's life


Somehow
I'm leading someone else's life

I cut a star down
with my knife

And right now
I still see the way the moon
plays this tune

Though our nights died

My hands shake
My knees quake
It's everyday
Same way

'Cause then came you
Then there's you
I keep your picture
in my worn through shoes


Then there's you
Then came you
When I'm lost
I look at my picture of you


And somehow
I'll make tonight our own

Show you every way I've grown
since I met you


And right now
I'll be the boy in your next song

I'll learn the parts and play along
if you let me


My hands shake
My knees quake
It's everyday
Same way

'Cause then came you
Then there's you
I keep your picture
in my worn through shoes


Then there's you
Then came you
When I'm lost
I look at my picture of you


If you let me
I'll show the world to you

Yes
If you let me
I'll know just what to do


'Cause then came you
Then there's you
I keep you picture
in my worn through shoes


When I'm lost
in your eyes
I see
the way for me



Camille - Pour que l'amour me quitte


Endormie
cheveux mouillés
bras repliés
retrouvée fenêtre ouverte
l'air
par la fenêtre

Pour que l'amour me quitte

En dormant j'ai rêvé
des milles lianes
Pagayé,
pagayé

Pour que l'amour me quitte

Réveillée
la lumière pâle
des murs de l'hôpital
trop aimer c'est pas normal
un cœur si mal
accroché,
décroché

Pour que l'amour me quitte
Amour


The Magnetic field - All my little words


You are a splendid butterfly
It is your wings that make you beautiful
And I could make you fly away
But I could never make you stay
You said you were in love with me
Both of us know that that's impossible
And I could make you rue the day
But I could never make you stay

Not for all the tea in China
Not if I could sing like a bird
Not for all North Carolina
Not for all my little words
Not if I could write for you
The sweetest song you ever heard
It doesn't matter what I'll do
Not for all my little words

Now that you've made me want to die
You tell me that you're unboyfriendable
And I could make you pay and pay
But I could never make you stay

lunedì 21 giugno 2010

Litfiba tornati insieme


Sono pronto.
Salvo complicazioni di sorta o estemporanee proroghe alla mia permanenza in terra straniera a metà Luglio, sarò di nuovo nella capitale il 23 di quel mese per godermi il concertone della reunion dei Litfiba.
Sto già spolpando ampiamente il doppio cd che ha lanciato questo evento, e devo dire che la scaletta dell'album mi piace moltissimo.
Detto ciò, propongo qui la mia personale lista dei pezzi storici che vorrei sentire.
Non necessariamente in questa sequenza (dato che li ho messi in ordine cronologico), nè per forza tutti tutti (dato che sono 26).
Vado.

- Lulù e Marlene
- Istanbul

- Tziganata

- Pierrot e la Luna

- Apapaia

- Univers

- Gira nel mio cerchio

- Lousiana
- Paname
- Peste

- Cangaceiro
- Dio
- Pioggia di luce
- Il volo
- Siamo umani
- Woda Woda

- Dimmi il nome
- Prima guardia
- Fata Morgana

- A denti stretti
- Tammùria
- Lacio drom

- No frontiere
- Suona fratello
- Ritmo
- In fondo alla boccia



C'è qualcuno che è d'accordo con me?

giovedì 17 giugno 2010

E mo saw cavoli...


“Mi sa solo l’uno e il due. Forse anche il tre, non ricordo... Il primo era figo, però.”

E’ questa la risposta ricorrente che si ottiene in questi giorni quando si chiede a qualcuno se conosce i film di Saw L’enigmista. Del resto è una domanda d’obbligo, dato che è in sala già da qualche tempo Saw VI e bisogna pure in qualche modo reclutare complici per una orrorifica incursione in sala...

Non che sia una risposta snervante, intendiamoci. Il primo, del 2004, in effetti è stato davvero molto apprezzato, e al di là della carica di sadismo e violenza che ha portato nel panorama dell’horror da blockbuster (precedendo di un anno il ben più estremo Hostel), tutti coloro che l’avevano visto erano rimasti spiazzati soprattutto dal fantastico ed imprevedibile finale. E con quel primo capitolo è iniziata in realtà una vera e propria saga. Qualcosa che si potrebbe etichettare più come un sofisticato telefilm che come un insieme di fortunati sequel. L’idea della produzione è stata infatti di partorire un Saw all’anno, e così è avvenuto. Tant’è che l’attuale sesto film giunge algebricamente puntuale nella nostra primavera 2010.

Difficile stabilire dove stia la forza del personaggio di John Kramer e dei film a lui dedicati. Forse nei suoi dispositivi diabolici, sempre nuovi e avvincenti. Forse nel vocione alterato che promana dalle dozzine di registratori vocali consegnati alle sue vittime. Forse nelle sue maschere grottesche con le guance a spirale. Forse nella sua retorica bacchettona e fintamente riscattista, sciorinata con una cura grammaticale e lessicale quasi chirurgica. O – cosa ancora più probabile – nel fatto che, prima con un piede nella fossa e dopo definitivamente defunto, Jigsaw continua ad essere il protagonista indiscusso di ogni capitolo, ora intervenendo in cupi filmati registrati, ora modificando storia e dinamiche con densi flashback di retrocontinuity. Ovviamente il pubblico apprezzerà con sfumature diverse un po’ tutti questi elementi, ma alla base di tutto c’è un salvifico minimo comune multiplo: il totale disimpegno intellettuale del fenomeno. Se vogliamo, l’onestà dell’operazione, che non aspira a rimpiazzare le iconografie di antecedenti storici come Nightmare o Halloween, ma che si pone più che altro proprio come una sofisticata serie tv a cadenza annuale.

In realtà, più di qualcuno, il rischio intellettuale dei Saw l’ha paventato. Che è forse poi lo stesso degli Hostel. Ovvero: il culto e l’attesa della violenza estrema solo a fini meramente sadici, strumentali, quasi “documentaristici”. Uno splatter non più legato alla combinazione di elementi esterni – mostri, fantasmi, natura, animali -, bensì a freddi ed asettici congegni di morte dal sapore retrò, dove la tensione è dettata più dalla spinta oltre i limiti intuibili dello stress fisico piuttosto che da sviluppi di intrecci narrativi reali.

Ma qui casca l’acido. E’ forse per aggirare questo agguato che la serie di Saw ha puntato molto su una struttura così riconoscibile nei suoi episodi. Soprattutto per ciò che concerne il finale. La maniera forse più spettacolare e marcata per fuggire dal suo stesso, scomodo, dispositivo mortale: cambiare continuamente le carte in tavola. Utilizzare spiegoni conclusivi che rimettano in gioco tutto, con richiami dettagliati a tutti i film precedenti, e che lascino nello spettatore quello spaesamento cool che li spinga alla ri-visione mirata o generale. Proporre finali che chiudano delle porte ed aprano delle trappole. Mantenere viva l’attenzione scavalcando urla, pianti e strumenti di tortura. E questo, lungi da ogni enigmistica complessità, è probabilmente il semplice segreto di questa saga, ancora sospesa fra mainstream e underground. Fra thriller e gore. Tra il mito e l’auto-parodia.

Amare o odiare Saw. Fate la vostra scelta".

saw3

sabato 12 giugno 2010

Morsi e rimorsi

"In un ricordo c'è...

...un morso d'eternità." (Cristina D'Avena)

giovedì 10 giugno 2010

Registi senza gloria


E per restare in tema di segnalazioni, mi pare doveroso ricordare che da qualche settimana è uscito in libreria il saggio di una cara amica e collega doppioschermista, Angela Cinicolo.
Il titolo già di per sè è da acquolina:
Tarantino vs Kitano. Registi senza gloria.

E' edito da Sovera Edizioni, contiene 160 pagine ed ha il prezzo di 15€. Io non l'ho ancora comprato, ma approfitterò degli Arion Days del prossimo weekend qui a Roma per rimediare.
Io conosco personalmente Angela, leggo spesso le sue recensioni e ritengo a ragione che sia una delle penne (tastiere?) più preparate e brillanti della critica cinematografica lette finora.
Si, è vero, sono molto di parte, ma so quello che dico. Leggere per credere.
Poi, come penso buona parte del mondo cinefilo, adoro Tarantino e apprezzo molto Kitano.

Insomma: un libro brillante su un tema brillante.
Cosa c'è di meglio?

domenica 6 giugno 2010

Bedda Matrix, Beautiful Giustina.


Mea culpa.
Avrei dovuto scrivere questo post una settimana fa, ma ci ho pensato solo ora.
Nella scorsa puntata della trasmissione Matrix si sono celebrati i 20 anni di Beautiful in Italia. Fra gli ospiti americani, gli attori di Eric Forrester, Owen, Steffy e (il primissimo) Thorne. Fra gli ospiti italiani, la gossippara Silvana Giacobini, la doppiatrice di Brooke - Mavi Felli - ma soprattutto, la mia/nostra mitica Giustina Porcelli.

Chi frequenta il mio blog dovrebbe conoscere bene Giustina e sapere già quanto la stimi. Per me è stato strano ed emozionante guardarla in tv, a pochi mesi dalla presentazione romana del suo ultimo romanzo La prima donna, e pensare: "Io la conosco! Sono un suo fan!".

A chi invece avesse iniziato a bazzicare il mio blog da poco, consiglio di approfindire tutti i link disseminati in questo post per conoscere l'opera brillante della brava (e bella) Giustina.
Mentre a tutti i fan di Beautiful (e/o di Giustina) che si fossero persi la suddetta puntata di Matrix, consiglio il recupero dello streaming del video da questo link.

Per concludere, mi limito ad un pacato e cameratesco:
"GIUSTINA, SEI MITICA!!"

PS:
Ma se invece di Owen invitavano Jack Wagner, non era moooolto più fico? Uffa.


mercoledì 2 giugno 2010

Yes We LOST.


L’arbitro ha fischiato. E’ finita anche questa partita durata ben 6 anni, ma la sensazione è che nessuno ne sia uscito davvero vincitore. Né i tanto parodiati sceneggiatori, sbeffeggiati e insultati in tutti i luoghi di discussioni tra fan, né il pubblico più e meno fedele di tutto il mondo, che a giorni di distanza dal triste epilogo cerca ancora di autoconvincersi di una presunta soddisfazione. Come succede fin troppo spesso nell’universo telefilmico, sembra che prima di terminare una serie di successo si debba averne violentato il cadavere.
Ma del resto, la delusione degli aficionados si era già affacciata con la terza stagione, che in realtà era ancora a livelli molto buoni ma stava sterzando verso toni diversi dalle premesse imbastite nelle prime due. Se tutto fosse finito lì, con gli “Altri”, la Dharma e gli orsi polari, probabilmente Lost sarebbe diventato un diamante. Forse, l’unica esperienza televisiva davvero paragonabile a Twin Peaks quanto a presa sul pubblico ed eco mediatica contemporanee. Invece no. Con la quarta stagione è iniziato l’esperimento dei flashforward, che non erano poi così male ma di sicuro non avevano il mordente dei vecchi flashback. E l’ingresso di altri “Altri” ha complicato inutilmente le cose, sia da un punto di vista relazionale che di trama. Tuttavia, si poteva ancora chiudere baracca e burattini con dignità. Ma no. Era noto già prima della puntata 4x01 che sarebbero state prodotte tre stagioni finali, più brevi delle precedenti, a conclusione dell’epopea isolana. Quindi il pubblico di allora ben si aspettava che i misteri si sarebbero trascinati fino al nuovo decennio. In qualche modo, la previsione di questa compiutezza ha incoraggiato però la continuità nella visione anche di chi era in procinto di scendere dal carrozzone. Come non dare fiducia ad un progetto che ha il coraggio di autolimitarsi con una scadenza triennale, senza pericolo di proroghe o trascinamenti vitalizi da soap opera?
E lì è scattata la trappola. Sicari spietati, viaggi nel tempo (prima mentali e poi fisici), scienziati pazzi, templi e santoni, luoghi e non-luoghi, morti viventi e tanto, tanto fumo nero senza arrosto. Fondamentalmente, fino al terzo anno, a parte alcune trovate allucinanti che potevano ancora trovare giustificazioni razionali, i misteri legati all’isola erano descritti con una sapiente ambiguità che avrebbe tranquillamente ammesso spiegazioni scientifiche (o pseudo tali). Già con la quarta stagione si era accarezzata fortemente la virata fantascientifica ma – come accennato prima – le cose erano ancora recuperabili. Certo, a parte la brutta e sempre più diffusa abitudine di parlare coi morti. Con la quinta, invece, si è dato libero sfogo alle fantasie più nerd degli autori, con periodici viaggi nel tempo e revival degli anni 70 (la golden age della Dharma), congelando però gli aspetti più interessanti legati all’operato dell’oscura compagnia e gran parte dei segreti dell’isola disseminati in precedenza.
Ed infine, ecco l’ultima stagione. La deriva totale verso il misticismo tascabile, il manicheismo sfumato con photoshop, il fatalismo da oroscopo settimanale, lo snaturamento di personaggi amati e ben delineati negli anni. E soprattutto, un filone alternativo che non è né un prima né un dopo, bensì un “ultraverso” (altriverso?) non ben specificato dove i personaggi sembrano vivere un gigantesco what-if legato ad un mondo dove l’isola non è più a galla da tempo immemore. Che a sentirlo così sembra fichissimo, ma dopo il primo episodio diventa presto una noia mortale.
Ma come finisce, alla fine, questo Lost? Non intendo spoilerare nulla, perciò dirò solo questo: Lost non ha un finale “aperto”, come qualcuno si ostina a pensare. Lost, semplicemente, non ha un finale vero. L’episodio 6x16 potrebbe considerarsi un episodio particolarmente riuscito e curato, ma non di certo l’epilogo della serie. E scomodando ancora una volta l’opera di Lynch, la conclusione di Lost non può affatto essere paragonata a quella di Twin Peaks. I misteri lasciati irrisolti nella fortunata saga di JJ Abrams non hanno nulla a che fare con i simbolismi disseminati dal genio lynchiano. E per quanto in entrambi casi si percepisca un retrogusto truffaldino, la smaccata aproblematicità del ciclo finale lostiano, che lascia provocatoriamente in sospeso le dozzine di questioni aperte negli anni optando per una soluzione onirico-cristologica strappalacrime, rasenta l’offesa.
Ma forse il vero problema si trovava a monte. Si è discusso così tanto su Lost che qualunque ipotesi sul possibile finale era già stata teorizzata, in tutte le sue varianti, in tutti i forum (virtuali e non) del mondo. E così la lezione ultima degli sceneggiatori non poteva che prevedere l’esatto opposto di ciò che trepidamente si attendeva: la negazione della fine. La non chiusura del cerchio. Come avrebbe detto il buon Daniel Faraday, l’eliminazione della costante dal cumulo di variabili. Certo, una presa di posizione arrogante e di sicura impopolarità, ma non necessariamente priva di coraggio. O magari, a sua volta, la negazione stessa di un atto di coraggio. Difficile dirlo, a mente ancora calda.
Di quest’avventura, tuttavia, rimarranno molte cose: i tormentoni dei personaggi, le speculazioni fluviali degli (ex)spettatori, le musiche inquietanti, la sigla essenziale, l’introduzione massiccia di dialoghi sottotitolati in un telefilm (trend che verrà adottato e amplificato dal supereroistico Heroes), l’occhio chiuso/aperto, nonchè un’innovazione registica seriale senza precedenti. Ma soprattutto, Lost ha catalizzato un’attenzione morbosa sul binario parallelo della fruizione pirata, che ha superato – non solo da noi – quella prestata dal pubblico della tv in chiaro o satellitare. E ha inoltre movimentato un universo metatestuale immenso in ogni angolo del mondo fra saggi, discussioni, eventi e merchandising delle più svariate ramificazioni.
Il sospetto (più che fondato dati precedenti analoghi) è che il vero mito di Lost cominci ora, con la sua fine. Come se questo polemico epilogo avesse fatto esplodere la “botola” dove i suoi fan erano rinchiusi nella meticolosa ricostruzione di trama e cronologia della serie.

E quale canzone, a concludere questa suggestiva immagine, se non questa?