martedì 26 agosto 2014

Il corpo del reato

Una piacevole ossessione che dura da quasi un anno.
Un impietoso manifesto di provincia condensato in 6 minuti di canzone.
E, ogni volta, un pugno nello stomaco.

Prima o poi smetterò di ascoltarla almeno una volta al giorno.



sabato 10 maggio 2014

Auguri 2.0



Che poi uno dice ma è normale, le mamme sono così, devono vantare i figli davanti agli altri, è nella loro natura. E tu lì a spiegare che ti dà fastidio, che non è vero che sei così bravo, che sta esagerando come al solito, che poi rischi di farti odiare. Ma lì per lì non ti rendi davvero conto del perché. E' solo quando sei grande che lo capisci appieno.
Le mamme passano anni ad alimentare aspettative enormi su di te quando sei piccolo, sia all’interno che (soprattutto) al di fuori della famiglia. Ma poi arriva il momento di mantenere le promesse. Che tanto, essere bravi a scuola non è poi una gran cosa. È su quello che farai dopo, che tutti hanno gli occhi puntati.

Così, tutt'a un tratto, si crepa lo specchio.
Il silenzio si espande. L'elefante cresce in una stanza minuscola.
Tutti i tuoi amici - non solo i più brillanti, ma tutti - sono a uno o più passi avanti a te.
Le loro mamme magari non li decantavano come la tua. Forse non ne avevano proprio motivo. O erano solo più distratte. O magari molto preoccupate. Eppure, adesso, guardano i loro figli e le loro figlie con orgoglio, ripetendosi che non avevano dubbi. Magari qualche riserva si, ma dubbi mai. E beati loro. I figli. Che da quell'orgoglio si rafforzano e si riscaldano.

Visto? Te lo dicevo io, che non era il caso. Mai fare promesse che non puoi mantenere. Come quella che sarei diventato importante. O che avresti organizzato per filo e per segno il mio matrimonio. O che saresti piombata nella mia futura casa senza invito ogni volta che volevi perché ci sarebbe stata una stanza degli ospiti solo per te. O che mi avresti dato sempre del filo da torcere viziando e ingrassando i miei bambini e litigando con l'altra nonna per monopolizzare il tempo da passare con loro.

Eppure, non è soltanto questo, ad avvilirmi.

Quando mi chiedono se penso a te, se qualche volta ti sogno, rispondo sempre nel modo più rassicurante. Credono di essermi vicini e non mi piace l’idea di mortificarli. Non dico mai loro la verità. Che cerco di non pensarti. Che spero di non sognarti. Perché quando succede, non riemerge mai quello che vorrei. Nel suo viaggio a ritroso, la mia mente si ferma sempre prima, troppo prima. Rivede solo un corpo bianchiccio e martoriato, una testa glabra con una benda sull’occhio e tanti movimenti affaticati. Riascolta pianti scarichi, urla senza fiato, rumori meccanici di aspiratori. Si arena in quelle zone scure in cui ti ha voluto abbandonare per salvarsi. Mi piacerebbe poter rievocare anche i momenti belli del passato. Ricordare le risate, il cibo, le liti: le cazzate salvifiche alle quali si aggrappano gli altri. E invece mi spettano solo le immagini strazianti degli ultimi giorni. Quella volta a tavola in cui, sempre meno cosciente, ti sei guardata intorno cercando chissà quale oggetto e hai detto: “Mi dovete uccidere”. Quella volta in cui la tua malattia mi ha urlato contro una rabbia ultraterrena ed ingiustificabile mentre mi pettinavo in bagno. E, soprattutto, la volta in cui qualcuno, in quella fottuta stanza, mi ha scosso il braccio, sei secondi dopo il tuo ultimo respiro, perché mi ero assopito sulla sedia accanto al letto e ora bisognava uscire a chiamare il dottore. Ero rimasto vigile fino a pochissimi minuti prima, cercando di leggere il mio fumetto come se nulla fosse per impegnare i pensieri. Proprio io che rimango sempre seduto oltre i titoli di coda, con te mi sono addormentato sul finale. Ironico, eh?

Comunque devo dirlo: su alcune previsioni ti sbagliavi, o ti sbaglierai. Su altre, ahimè, non ti avevo creduto. Un po' mi solleva che tu non abbia fatto in tempo a scoprire su cosa hai avuto ragione: sarebbe stato più penoso vedere il tuo dolore che immaginarlo solamente. 
Ma ciò che mi rattrista davvero è che tu non sia riuscita a conoscere lei
E tanto.


Ad ogni modo, per quello che posso, ti faccio i miei auguri.
Per la prima volta, da quando non ci sei.
E ti confesserò una cosa che non ho ancora detto a nessuno.

Nonostante tutto, mi manchi.

In un modo che non ho ancora imparato del tutto a realizzare. Un modo che, per omaggiare il tormentone di cui mi sono appropriato da quella maledetta notte, non posso che definire “tutto sbagliato”.

E: sì, lo so che non si fanno, gli auguri in anticipo. Ma non lamentarti.
Domani, magari, non ne avrei avuto la forza.


giovedì 27 febbraio 2014

Estraneo


“Abbiamo un bilocale molto carino proprio qui in zona”, esordì l’uomo con un tono di cordiale complicità. Le sue dita cercarono con calma un foglio all’interno del blocco appoggiato sulla scrivania. La coppia di fronte a lui si lanciò un’occhiata reciproca.
“Mmmh, ora non trovo la lista, ma se non ricordo male dovrebbe essere in via Magenta. Proprio vicino alle Poste. Avete presente?”
“Le Poste...”, ripeté il giovane, più rivolto verso la compagna che al suo interlocutore. “Sì, forse ho capito”, completò con voce flebile.
“È un’ottima zona, quella. Ben collegata, molti negozi, si trova facilmente parcheggio. E poi, anche se non è centralissimo, è un quartiere tranquillo, ormai. Non è più mica come 20 anni fa…”

Il ragazzo scoppiò in una risatina dal sapore isterico. Lei lo stava guardando con un misto di dolcezza e compassione, le labbra serrate in segno di impotenza. Partecipò istintivamente a quella risata con lui, ma dopo qualche secondo si chiusero entrambi in un silenzio imbarazzato.
“Non capisco”, replicò visibilmente seccato il signore di fronte a loro. La sua mano destra, incerta, non aveva smesso di sfogliare gli A4 davanti a sé. “Vi interessa o no, l’appartamento?”
“È QUESTO, il nostro appartamento”, scattò il giovane, ormai senza più alcuna traccia di condiscendenza nella sua voce. “E ci vivi anche TU”.
“Ma… In che senso…?”
“Papà, ti prego, sono IO, Maurizio. E questa è casa nostra. Casa tua e casa mia”.

L’anziano guardò davanti a sé con improvvisa attenzione, cercando di mettere a fuoco con gli occhi le parole appena ascoltate. Non capiva. Controllò i fogli che stava rovistando e si rese conto che erano tutti bianchi. Fissò le mani e le riscoprì molto più sottili e nodose di quanto si aspettasse. Scrutò il proprio petto e, laddove era convinto avrebbe trovato una cravatta a righe oblique, realizzò che si allineavano solo i bianchi bottoni di un anonimo pigiama verdino.
“Papà, dobbiamo andare a fare il bagno. Per favore, alzati e vieni qui”. Lo sconosciuto aveva offerto il proprio gomito per invitarlo a braccetto ma, sebbene si stesse rivolgendo a lui, non sembrava cercare il suo sguardo, né quello della ragazza.

Così, di colpo, capì. Nei suoi occhi balenò un’epifania. Una frazione di coscienza sempre più estranea. E fu allora che ricordò, in tutta la sua perentorietà, ciò che stava vivendo.

La paura.


(ispirato a un film che, se e quando lo doppieranno da noi, si farà trovare già vecchio)

lunedì 3 febbraio 2014

Tutto sbagliato



La strada era fin troppo illuminata per essere così in periferia, eppure l’ombra folta dei sicomori restituiva all’asfalto malandato la sua doverosa oscurità. L’autoradio mal sintonizzata oscillava da un fastidioso predicozzo cattolico ad un imprecisato brano anni 50 che rendeva l’atmosfera intermittente e surreale.
Si era voluta sedere davanti. Lo faceva spesso. Qualcuno le aveva detto che era sconveniente, che nei taxi ci si mette dietro, ma lei aveva sempre sorriso senza argomentare. E questa volta, il suo accompagnatore non aveva osato dirle nulla.
L’autista, pallido di carnagione e reso ancor più bianchiccio da un’alopecia totale, guidava nell’oscurità senza nemmeno bisogno di guardare il vistoso display di navigazione. Ogni tanto, ad integrare i disturbi elettrostatici degli altoparlanti, provenivano suoni e voci sparute di un canale radio privato che l’uomo al volante sembrava ignorare. Non aveva pronunciato una sola parola, nemmeno per chiedere l’indirizzo, dato che gli era stato scandito prima ancora che le portiere si fossero richiuse.


Ci vollero circa quindici minuti. Arrivati sul vialone alberato, l’uomo seduto sul sedile posteriore si sporse verso il guidatore e sussurrò: “Da qui in poi rallenti molto, per favore. Vada proprio a passo d’uomo. Devo ricordare il punto preciso”, mentì lui. Il tassista concesse un cenno di assenso e fece come gli era stato richiesto. La donna accanto a lui continuava a guardare dal proprio finestrino, stropicciando con le dita un maglione di lana azzurro in una sequenza di gesti lenta e compulsiva.
“Ancora più piano, per favore. Tanto non passa nessuno”, insisté lui. Di lì a qualche secondo, sentenziò. “Qui. E’ qui”. Con una frenata minuscola, la vettura inchiodò quasi in mezzo alla strada. “Aspetti un attimo qui”. Prese in mano la giacca e si spostò sull’altro lato per uscire dalla portiera destra ma, appena lei focalizzò quell’azione, lo bloccò. “No no. Stai qui. Vado da sola”.
“Ma lasciami..”
“NO. Ti prego”, lo interruppe lei. “Ti prego, ti prego..”, continuò sottovoce, in un loop che dissolse nel silenzio, finchè lui non rimase immobile. Accese la lucina centrale sopra la sua testa, si chinò per qualche secondo e riemerse con le proprie scarpe in mano. Le avvolse alla meno peggio nel maglioncino ed aprì la portiera.
“Ma che fai?”, urlò l’uomo.
Lei si voltò di profilo, con un gesto elegante e perentorio. “Non ti preoccupare. È una cosa mia. Ti chiedo solo di rimanere qui seduto e di non voltarti. Finché non torno. Ti giuro che faccio più in fretta di quello che pensi”.
Non gli diede il tempo di dire nulla perché con le ultime sette parole aveva già valicato i confini della macchina e perso ogni interesse per le spiegazioni. I suoi piedi sul nudo asfalto iniziarono a procedere, con lentezza quasi agonizzante, verso una meta invisibile. Il taxi alle sue spalle rimase fermo lì, come fosse in panne in mezzo al nulla, con la portiera destra ancora aperta. Un suono meccanico di freno a meno lo ancorò al suolo mentre il rombo del motore si spegneva, lasciando vivi soltanto la debole lucina gialla sul guidatore e i ronzii sempre meno puliti di una musica senza ormai identità.
Le gambe sottili di lei si muovevano quasi a scatto. A pochi metri, sulla sua sinistra, una villetta familiare – con tanto di altalena sul portico e maestoso albero in giardino – sembrava osservarla senza rumore, attraverso l’indiscreto occhio di una porta inspiegabilmente semiaperta.


L’arresto fu improvviso. Le gambe le si bloccarono. Il suo attento sguardo da rabdomante spaventato aveva finalmente raggiunto ciò che cercava. Era lì. Non c’erano dubbi. I resti di una debole macchia persistente erano ancora riconoscibili nella loro macabra forma. Le anomalie di quel tratto stradale, già di per sé abbondanti, acquisivano una conformazione ancor più marcata. L’impressione era che potesse esservi caduto un pesante ramo, o che uno smottamento avesse spezzato di poco la continuità del percorso. Del resto, per lei sarebbe stato così splendidamente verosimile, quasi rassicurante.
Avanzò di qualche passo fino a raggiungere la forma scura sull’asfalto. Una volta là, si trovò a fare una impercettibile marcia sul posto. Sentiva sotto i suoi palmi infreddoliti tutte le asperità e granulosità di quel metro quadrato una volta integro. Poi sollevò la punta del piede e avvicinò l’alluce alla crepa, cercando di ripercorrere con il tozzo dito quell’irregolarità. Come in fondo sperava, nel farlo si riempì di tagli e sentì la fatica immane dell’operazione. La sua vestaglietta rosa, rinforzata solo da un golfino sbiadito, ondeggiava al venticello tardo estivo di quella cornice alienante. Le sue mani stringevano ancora il maglioncino appallottolato attorno alle espadrillas. Le stesse scarpe basse con cui, quella sera, cercava a fatica di aderire ai pedali. Riallineò i piedi scalzi e si chinò con insospettabile leggiadria. Avvicinò le braccia a quella linea frastagliata e sporca che l’aveva ferita e liberò la presa, spargendo tutto in terra. Quando tornò su, affrontò il quadretto di orrore davanti a sé cercando invano di non rievocare la dinamica di quell’antico istante. Di non riascoltare il fragore dei vetri nè lo stridio del metallo e della plastica. Di non pensare a quanto suo fratello stesse bene con quel maglione un po’ rovinato. Di non continuare a odiare se stessa come invece avrebbero per sempre fatto i suoi genitori.
Rimase per un tempo indefinito a fissare quel tessuto e quelle scarpe. Se ne stavano lì, elementi caotici di uno scenario estraneo. Icone senza luce e senza storia. Tracce di un what if macabro e poetico che non smetteva di ossessionarla.
È tutto sbagliato”, sibilò muovendo appena le labbra. Strinse i pugni e si coprì gli occhi coi polsi, affondandoli nelle palpebre. “Tutto, tutto sbagliato”, continuò a ripetere nella sua mente infinite volte.
E finalmente, per la prima ed ultima volta, si lasciò piangere.


Tornò nell’abitacolo a passo più che spedito. Si tirò dietro la portiera senza sbatterla. Con il dorso della mano, si sfregò ancora un paio di volte agli angoli degli occhi. Si girò e fece un cenno. “Ok, possiamo andare”, disse l’uomo al tassista, come se fosse stata una sua decisione. Gli occhi di lei caddero d’istinto sul tassametro. Per un attimo si stupì che non fosse ripartito da zero. Solo per un attimo. Con un movimento incerto, tolse il golfino dalle spalle e se lo stese sulle gambe scoperte.
Da dietro, una mano tiepida le si appoggiò con delicatezza sulla spalla tremante. A pochi centimetri dal suo orecchio arrossato, le si accostò una voce calda e premurosa.

“Come va?”, chiese lui.
“Ho un po’ freddo”, concluse lei.