mercoledì 30 dicembre 2009

Saggezza a punti per il nuovo decennio


Punto 1)
Non dedicare tempo a sterili disquisizioni algebriche sul Punto in cui inizi effettivamente il nuovo decennio. La risposta giusta l'avevi già scoperta, difesa e discussa in fastosi simposi accademici alla vigilia del 2000. Ricordi? Nulla è cambiato, teoricamente parlando. O quasi.

Punto 2)
Impara a dire di NO e a vivere un pò meglio. E se hai bisogno di un Punto di partenza o di un prezioso supporto teorico, la risposta è sempre il link a questo libro. Io l'ho letto, e posso dire che qualcosa in me è cambiato. Come direbbe il filosofo Zalone di Elea (detto anche Checco), sarei un ipocrita se dico il viceversa.

Punto 3)
Smetti di lottare con la tua riga al centro: non PUOI vincere. O ti cresci i capelli al Punto giusto, cioè quel tanto che basta per non avere opzioni professionali alternative alla rockstar e al guru, o spera di (e impegnati a) perderli il prima possibile.

Punto 4)
Non è che tuo padre non apprezzi o non capisca quello che hai studiato, che stai diventando o che vuoi diventare. Ok, magari un pò si, ma come dargli torto? Il Punto è un altro. Quello che davvero lui non riesce a lungimirare è se, con quelle cose, riuscirai in qualche modo anche a camparci. E tu, di certo, non fai nulla per rassicurarlo se continui a mugugnare quando ti richiede ciclicamente i possibili sbocchi del tuo percorso. E se ancora non ne hai la minima idea manco tu, inventa! Ma insomma, te lo devo dire io?

Punto 5)
Neanch'io sono scaramantico, credimi. Ma se sei in tempo, per quest'anno fa come me: dì ai tuoi amici e parenti che, se proprio devono farti gli auguri per l'anno nuovo, almeno stavolta ti augurino semplicemente un
2010 DI MERDA. Punto.
Magari così funziona...


Comunque, in alternativa, ci sono sempre la radiosveglia e lo zainetto viola.
Coi punti, intendo.

giovedì 17 dicembre 2009

Recensione negativa: - 10 Inverni


Dieci inverni non è un'altra storiella d'amore zeppa di banalità, soprannomi, stringature, genitori distratti, lucchetti e scritte sui muri.
La storia non si svolge nell'arco di pochi giorni o di alcuni mesi, ma copre l'ampio arco temporale sintetizzato poeticamente nel titolo.
Per quanto sconclusionati ed indecisi, i due protagonisti non appaiono come i soliti snervanti e macchiettistici personaggi che stanno affollando la letteratura giovanilistica italiana negli ultimi anni. Provano emozioni contrastanti, hanno dialoghi e reazioni normali e non cercano di sembrare sempre più grandi di quello che sono.
La regia non cerca di accattivarsi solo un pubblico adolescenziale con scene forti o guizzi videoclippari, ma riesce invece ad essere inaspettatamente pacata e graziosa.
La mia mente mi ha riportato subito al bellissimo UN AMORE, di Gianluca Maria Tavarelli, che presenta alcune analogie strutturali e di trama con Dieci Inverni ma che non ha, probabilmente, la sua stessa dinamicità e leggerezza (cosa che, all'epoca della sua uscita, non gli portò molta fortuna, relegandolo anzi un pò ingiustamente a prodotto inellettuale e di nicchia).
E, per inciso, UN AMORE è uno dei miei film preferiti, e non esiterò mai a difenderlo a spada tratta, all'occorrenza. Anche se non credo che si presenterà mai questa necessità...

In sostanza, nel complesso, per me non si può parlare male di questo film. Non ci sarebbero i presupposti teorici, tecnici e - soprattutto - emotivi per farlo.
Ma soprattutto: Dieci Inverni è un film che ho ritenuto bellissimo - probabilmente il più bel film italiano dell'anno - ma che emotivamente, proprio come avevo previsto, non mi ha certo fatto bene.
Se non volessi usare un eufemismo, potrei dire che mi ha proprio devastato. E la sua conclusione, sebbene non totalmente drammatica (è questa una delle analogie più forti col film di Tavarelli), di certo non dà alcun conforto reale agli animi sensibili.

Ai titoli di coda, il pubblico in sala ha avuto il bellissimo accompagnamento musicale di Parla piano - del bravissimo Capossela - ad intensificare, con diverse gradazioni, l'effetto di commozione finale. Io però, dopo l'ultima dissolvenza, non ascoltavo davvero il buon Vinicio. Sentivo ed apprezzavo quella scelta, ma il mio personalissimo Play cerebrale aveva avviato già un'altra canzone.
Forse non la più appropriata in assoluto, ma quella che io immaginavo come la naturale conclusione di cotanta esperienza mistica.
Questa.



E qui, il link con testo e traduzione.
Non che servano veramente.

domenica 13 dicembre 2009

"I'm not Superman" (video SPOILER)



Non lo sono mai stato. Nè ho fatto mai credere di poterlo essere.
Per questo motivo, visto che questo motto/tormentone mi ha accompagnato per otto lunghi anni, ripetendosi breve e cantato nella sigla della mia serie preferita, non sarebbe giusto nascondere - per rispetto del suo insegnamento -
La Mia Reazione
alla fine del longevo ed inimitabile SCRUBS, da poco conclusosi su MTV.
L'ultima puntata dell'VIII serie, più breve delle altre (tolta la sfortunata annata dello sciopero sceneggiatori), si è conclusa con una sequenza così commovente e ben musicata che il magone e gli occhi lucidi sono state reazioni del tutto immediate ed incontrollabili.
Probabilmente nulla di eccezionale per chi non è cresciuto con la combriccola del Sacro Cuore, ma per i fan di JD & Co quei minuti sono stati tristi e struggenti come la sequenza senza dialoghi di UP.
E nonostante gli alti e i bassi delle ultime stagioni, si può dire che la serie si sia conclusa mantenendo comunque uno standard davvero alto.

In realtà in queste settimane, negli USA, sta andando in onda una nona stagione, che pare sia davvero l'ultima. Ma siccome la chiusura avvenuta nella stagione precedente era proprio perfetta e pareva un sacrilegio riaprire a forza un'opera così magistralmente conclusa e sedimentata, non hanno avuto il coraggio di lasciare il titolo della serie classica - il semplice Scrubs -, ma lo hanno modificato per l'occasione in Scrubs - Med School.

Ma come feci anche con Happy Days, che decisero sciaguratamente di far continuare dopo la bellissima - e assai tardiva - conclusione (in cui, al matrimonio di Joanie e Chachi, lo stesso Howard Cunningham guardava in camera augurando a tutti di trascorrere dei "giorni felici"), non considero ciò che viene dopo come serie ufficiale. Semplicemente, non sarebbe giusto.
Lo ritengo al massimo un'appendice apocrifa, uno sciacallaggio mediatico. Se non un impeto di necrofilia febbricitante.

Bisogna sempre aver rispetto dei morti.
Soprattutto se, nonostante la disgrazia in cui erano caduti in vita, sono riusciti a spegnersi con relativa dignità.



mercoledì 9 dicembre 2009

Dilemmi del gladiatore induista


"...e avrò la mia vendetta.
IN QUESTA VITA, O NELL'ALTRA!"

"Si, ma quale? N'a prossima io so' un sasso..."

"Mmm, fammi controllare. Facciamo l'altra ancora, sempre se... uhm... no, poi non posso io. Vediamo se ho impegni per la terza... (dov'è dov'è dov'è, AH, ecco). No, nemmeno la terza. La quarta direi di no, perchè sono un paramecio... ECCO! La quinta è libera. Tu come stai messo con la quinta?"

"Eh, no o' so, io arrivo solo fino a' terza. Diciamo che nun ce dovrebbero sta' probblemi. Karma permettendo..."

"Ok, allora vada per la quinta."

"Ma: e se i miei cicli e i tuoi nun dovessero combacia'? No, dico, se ci ritrovamo che tu sei 'n vecchio norveggese decrepito ed io 'n chihuahua brasiliano di 3 mesi?"

"Un che?"

"Niente, lassa perde. Ma senti: perchè nun famo ora, così nun ce pensamo più?"



lunedì 7 dicembre 2009

Astroboy: il (mio) mito retroattivo


Non c'è una ragione precisa. Il marketing non c'entra molto, in questo caso.
All'inizio, avevo saputo della produzione di un film animato su Astroboy. Mesi dopo, per conto di DoppioSchermo, avevo scritto un articolo sul fenomeno Astroboy in occasione dell'anteprima del suo film alla Festa del Cinema di Roma.
Ma facendo un passo indietro, nel Gennaio di quest'anno avevo visto, durante il mio viaggio giapponese, un ghiottissimo manga ancora inedito (allora) da noi: PLUTO, del bravissimo Naoki Urasawa. E in copertina si leggevano i nomi di due autori celebri: lo stesso Naoki Urasawa e - colpo di scena! - niente di meno che Osamu Tezuka.
All'inizio mi era venuto in mente che potesse essere una sceneggiatura inedita, ma decisi di non indagare perchè non volevo rovinarmi la sorpresa della scoperta quando fosse uscita la versione italiana.
Nel frattempo avevo comprato - e solo sfogliato - il prezioso volume Tezuka secondo me, di Takao Yaguchi (il creatore del longevo ragazzo pescatore Sampei), dove il mito del dio dei manga veniva rispolverato attraverso una carrellata dei suoi personaggi. Compreso ovviamente il celeberrimo Astroboy.
Quando è poi finalmente arrivato qui in Italia PLUTO, ho scoperto che si trattava di una personale rielaborazione proprio del personaggio di Astroboy. Quando ho cominciato a leggerlo, quindi, avevo già in qualche modo una notevole apertura verso l'icona del bambino robot.

Ma, giunto al quarto volume (l'ultimo uscito finora) del manga di Urasawa, ho capito che qualcosa non tornava. Va bene: lui è un genio, e se ha partorito una genialità come MONSTER è difficile che possa sfornare qualcosa che sia bello anche solo un pò meno della metà. Ma il mio dubbio era: può un personaggio così "antico", così "solare", così "ingenuo" come il buon vecchio Astroboy essersi sedimentato in maniera così violenta e matura nella mente - seppur geniale - del giovane Urasawa, e portarlo poi - in età matura - a scrivere una storia così intensa e disperata?
Qualcosa non tornava. E così mi sono procurato quello che credevo essere il primo episodio della serie animata originale di Astroboy. L'ho guardato tutto, e mi è sembrato fin troppo drammatico e poco "infantile" considerando l'epoca a cui doveva risalire. Tuttavia, anche lì mi è venuto un dubbio: ciò che stavo vedendo era a colori, e l'animazione - per quanto potesse essere frutto di restauro - era comunque troppo fluida per gli anni che pensavo dovesse avere. Mi rendo conto solo alla fine che si tratta di una serie remake dei primi anni 80, comunque notevole.
Allora vado alla ricerca della fonte originale: la mitica, primissima, serie. Anni 60, bianco e nero. Doppiata in inglese (o in originale sottotitolata). E anche in questo caso, nemmeno il mulo ha potuto aiutarmi.
Ho dovuto rinunciare alla febbre del possesso, e mi sono accontentato della splendida opportunità della sola condivisione on-line. Grazie mille, Youtube.

E adesso, sperando di scuotere un pochino anche una sola anima sensibile, vi invito a guardare questo filmato. E' solo la prima parte della prima puntata. Ce n'è un'altra della stessa lunghezza, e poi un terzo video molto più breve.
Ma dovete farlo davvero. Quando avete un pò di tempo, calma e un pizzico di spirito nostalgico.
E se il clima prenatalizio non dovesse aiutarvi molto in questo, fate finta che siamo a Maggio.
E poi, in tutta sincerità, fatemi sapere che impressioni avete avuto.

Solo una cosa: cercate di farlo PRIMA che un film animato natalizio dal titolo stranamente familiare possa sporcare tutto questo.

PRIMA...




mercoledì 2 dicembre 2009

IperUranio Impoverito (O dei danni dell'Idealizzazione in chiave ascendente)


Spesso si parla dei danni dell'idealizzazione in chiave discendente. Idealizzare una persona, cosa o situazione porta ad una forte delusione quando la si vive poi nel suo contesto reale, con tutti i suoi difetti e asperità. Lo scarto fenomenologico, in questo senso, è sempre negativo.
Ma esiste anche un'altra direzione, in cui procedere, per arrivare allo stesso tipo di sconforto. Un approccio esatto e contrario, che forse chiamare ascendente è tanto inappropriato quanto lo è stato usare l'aggettivo opposto in apertura.
Vivere nell'idea è pericoloso non perchè si possa rimanere delusi dalla contingenza, dalla manifestazione specifica e tangibile. E' pericoloso perchè ci si può rendere conto che la realtà è terribilmente (e neanche troppo inaspettatamente) più bella dell'astrazione. Proprio per i suoi splendidi compromessi, per le sue infinite variabili, per tutto ciò che rende umana l'esperienza sensibile.
L'idea, in quest'ottica, non è più un rifugio fantastico e perfetto, ma una sorta di porto franco scialbo, un modello base. Un kit dell'Ikea. Un template incolore.

L'esempio più pratico e facile da illustrare è sempre quello amoroso.
Idealizzare una bellezza diafana (o mediterranea: fa lo stesso), eterea, sublime, dolce, elegante, pacata ed aproblematica sarà forse meno grave che vivere sognando - che so - un volto che ronfa sgraziatamente, un tic impercettibile, una voce irregolare, una personalità lunatica, o una configurazione casalinga scomposta e poco sensuale. E questo, semplicemente, perchè nel primo caso difficilmente si rasenterà mai la realtà, mentre nel secondo può capitare di prenderci quasi in pieno. Ma quando questo accade si scopre che lo scarto con l'idea, seppure apparentemente minimo, è in realtà insanabilmente viziato ed irrecuperabile.
Il luogo.
L'età.
Fattori etici o culturali esogeni.
Ma soprattutto, e molto più banalmente e frequentemente:
la durata.

L'uomo potrà lavorare ancora per qualche milione di anni su di sè e sulla perfettibilità della sua esistenza, ma non riuscirà mai del tutto a concepire la propria (auto)realizzazione in una dimensione temporale che non sia la stramaledetta
eternità.
E' solo questo, in fondo, il vero problema dell'idea: lo spazio-tempo.
Del resto, lo è sempre stato. Fin dai tempi di Platone.

E poi, pensate anche a Hiro Nakamura.
O a Mr Manhattan.



sabato 28 novembre 2009

V - trend

Negli ultimi tempi, l'idea di rendere mitologia un prodotto mediatico con una nervosa V rosso sangue pare stia diventando il frutto di un'improbabile cooperativa transnazionale piuttosto che figlia di un'unica ed esclusiva paternità geniale.


Ignorando altri esempi simili e più o meno distanti nel tempo, mi balenano subito alla mente:

- l'anarchico logo di V for Vendetta;


- il V-day di grilliana memoria;


- il promettente remake dei
vecchi Visitors
,

dal laconico titolo
V;


-la recentissima biografia cinematografica di Valentino, dalla V decisamente più elegante ma non meno passionale.



E' questa la prima riflessione che mi è venuta in mente quando ho guardato il pilot della nuovissima serie V-visitors, che dopo il teaser ha una sigla decisamente lostiana: una sanguinante V irregolare su fondo nero, con accompagnamento musicale altrettanto estraniante.
Della serie, come spesso mi diverto a fare in questa sede, cercherò di non parlare nel dettaglio. Posso solo dire che il mio istinto mi ha portato a dare la priorità a questa visione piuttosto che al ben più strombazzato e quasi contemporaneo Flash Forward (che comunque è il prossimo della lista). Ed io mi fido ciecamente del mio istinto.
Anche se lui non sempre ricambia.



domenica 22 novembre 2009

Il Festival del non-sense


Va bene, lo ammetto: sono un pò più cinico. E mi rendo conto che qualunque cosa si possa dire in queste circostanze raramente potrebbe essere davvero di aiuto.
Quello che mi stupisce è la capacità della gente di basirmi. E la mia incapacità di comprendere fino in fondo le sentenze che ricevo. Nè la loro totale buona fede.

Ecco un breve elenco delle frasi, più e meno ricorrenti, che gradirei non sentire più ma che so già che torneranno. Sotto vesti, perifrasi ed intenzioni differenti.



"DIECI ANNI insieme? Ma dai, è INCESTO!"
(questa va decisamente al primo posto. per lo meno per la sua onestà)

"MEGLIO così. CREDIMI."
(certo, perchè mai non dovrei?)

"Vedrai, ti farà bene RIMETTERTI IN GIOCO."
(perchè finora ho fatto sempre il panchinaro guastafeste, immagino. nessuno pensa che potessi già aver vinto...)

"Fra qualche mese RIDERAI di questi giorni."
(perchè aspettare? sento uno sbellicamento incipiente già da ora)

"Si vede che ERA DESTINO".
(già: quando ci si mette, Victor von Doom sa essere davvero un turpe marrano)

"Vuol dire che siete SEMPRE STATI SOLO AMICI".
(grazie. mi hai risparmiato anni ed anni di terapia. o di baci perugina post selezione mocciana)

"Qualcosa AVRAI FATTO, no?"
(è in momenti come questi che ti rendi conto che gli amici esistono. ma l'interlocutore attuale forse non lo è...)

"Ricordati che, per qualunque cosa, io CI SARO' SEMPRE."
(questa è la peggiore. l'ho sentita troppe volte, e non ha mai fatto meno male. mai promettere cose che non si sa di poter mantenere)


E, dulcis in fundo (anche se non è una semplice frase):

"Ma daaai! PURE TU?? Anche mia sorella/cugina/migliore amica/conoscente/ si è lasciata col ragazzo dopo un sacco di anni insieme e due/tre di convivenza."
"Ah Si? E poi?"
"Si è SPOSATA dopo UN ANNO con uno che aveva conosciuto da TRE MESI. E adesso aspetta già il secondo BAMBINO."
"Uhm... Ca- caspita. Beh, che, che dire... Buon per lei.
Ma... LUI?"
"Boh. E chi lo sente più?"
"......"

domenica 15 novembre 2009

"Dove vi sono le cose selvagge"


Più o meno la traduzione letterale suonerebbe così. E in un certo modo, il titolo italiano rende bene il senso del film.
Tuttavia, considerando la componente più psicologica della storia, e potendo interpretare quell'aggettivo nell'accezione di primordialità e quel sostantivo come riferito ad entità e stati d'animo piuttosto che alla semplice e generica fisicità oggettuale, la forza della sua versione originale (Where the Wild Things Are) è indubbiamente maggiore.
Della storia non dirò nulla. Solo che era più o meno ciò che mi aspettavo. E, per inciso, mi aspettavo qualcosa che mi avrebbe emotivamente scosso. Niente di scabroso o disturbante, solo non un semplice film di fantasie infantili.

Forse avrebbe giovato alternare la realtà vera a quella fantastica almeno una volta durante la narrazione, fra la primissima e l'ultimissima parte. Mentre, così com'è, anche seguirne il lato più "psicanalitico" risulta invece abbastanza alienante.
Comunque un film molto bello, l'ultimo di Jonze. Incredibile che il romanzo che l'ha ispirato sia solo un breve libro illustrato per bambini, e non un romanzo vero e proprio.
Una nota particolare, oltre che alle musiche, va al protagonista maschile: finalmente un bambino che fa il bambino e non tenta di fare l'adulto o di recitare come tale. L'anti Macaulay Culkin, se vogliamo. Anche se l'esempio negativo snervante ed un pò più attuale che mi verrebbe spontaneo fare, sebbene attingendo dall'altro sesso, è in realtà Dakota Fanning.
Dio, se penso che intanto è cresciuta, non so se essere contento o no...



domenica 8 novembre 2009

Giornata del Lavoro. Dicono.


Arrivo lì che ci saranno già quattrocento persone accalcate di fronte ai cancelli.
Poco alla volta, senza ombra di serpentine per strutturare in un qualche tipo di fila il fiume umano desideroso di entrare, la gente viene fatta passare in piccoli gruppi per una minuscola porticina sorvegliata da svogliatissime montagne umane. Si estende un giardino, che bisognerà attraversare per arrivare alla meta. All'ingresso, dopo aver controllato i nomi degli iscritti all'evento, ci regalano una borsa di tela ed una tovaglietta di plastica per la colazione (che qualcuno, inizialmente ed in buona fede, scambia per un mousepad troppo grande). Dopodichè, inaspettatamente, tutta la gente che era stata ore (almeno due) in coda per entrare, si ritrova magicamente di nuovo in fila, questa volta per entrare nell'edificio vero e proprio. E l'attesa, ora, è più compressa, assolata e lunga che mai.
Si scambiano due chiacchiere con gli sventurati colleghi di sudore, in bilico in coda sugli scalini, per capire se il clima di sconforto è generale. In realtà, è una curiosità retorica. Appena sento identificare il nostro status con la parola "disoccupati", mi affretto a suggerire - per adeguare il nostro atteggiamento alla ottimismo produttivo dell'attuale governo - la più politicamente corretta espressione "diversamente occupati", riscuotendo capitalistiche risate di ringraziamento motivazionale e qualche comunista perplessità morale.

All'interno del palazzo, in due padiglioni troviamo improvvisati stand di aziende ed agenzie più e meno conosciute. Inizialmente prendo la mira e comincio a lanciare i miei CV a guisa di stellette ninja, ma alla prima carotide recisa mi rendo conto che devo adottare una tecnica più socialmente accettabile e mi metto - tanto per cambiare - in fila qua e là, dove la densità umana è minore. Alla prima domanda tormentone che rivolgo agli standisti, "Che profili state cercando?", la risposta è quasi sempre scoraggiante. Mentre alla seconda, "Siete interessati a laureati in comunicazione, scienze politiche e lingue con esperienze nel marketing?", le reazioni variano un pò: taluni manifestano un impercettibile guizzo alla parola marketing - o economia, quando accenno alla tesi -, ma poi ricordano tutto il resto e scuotono dolcemente il capo; talaltri dicono direttamente NO, impassibili e già con lo sguardo diretto allo sventurato successivo; gli ultimi scoppiano a ridere e mi guardano increduli, come se fossi una carrozza di zucca al Motor Show, e ci manca poco che mi chiedano di poter fare una foto con me.

La maggior parte dei presenti ammette candidamente di essere lì soprattutto per i gadget, per i quali inizia una vera e propria caccia al tesoro mista a lotta per il possesso. In tutta la giornata, dopo una zuffa nuvolosa da fumetto, riemergo pieno di lividi con in mano un parasole laterale per l'auto. E lì mi rendo conto di quanto io abbia voglia di Kebab e che sono già le 4. Lancio così la mia ultima stelletta ninja gigante, ed il parasole torna dove era stato prelevato. Stavolta senza ferire nessuno.

Fra le sparute persone che mi hanno concesso la pallida imitazione di un colloquio, le sole che hanno lasciato intendere che avrebbero potuto chiamarmi sono i tipi di un'agenzia viaggi, i quali hanno minacciato di mandarmi in qualche luogo esotico a spalare letame e ad animare la popolazione locale. Spero non col defibrillatore.

Un giudizio complessivo?
Di sicuro positivo. Ho imparato tante cose. Ad esempio, che la prossima volta che ci sarà una giornata del lavoro, cerco almeno di fiondarmi prima sugli sciampi o sulle penne.
E che al massimo, se ne ho già in abbondanza a casa, mi mando avanti col lavoro e vado direttamente a spalare letame.


PS: In realtà il nome tecnico della "stelletta ninja" è shuriken, ma ho creduto che la prima espressione sarebbe stata più immediata mentre usare direttamente la seconda poteva essere una scelta spocchiosa ed imbarazzante. Così ho pensato che sarebbe stato ancora più spocchioso ed imbarazzante mettere questa informazione in nota.
E' la saggezza degli anni.
(no, non era una domanda).



martedì 3 novembre 2009

"Il mio nuovo futuro"


Il mio nuovo futuro non sarà buio totale,
ma una fredda e ronzante luce al neon.
Non è silenzio assoluto
ma lo stesso ossessivo e frusciante giro
di un vinile incantato.
Il mio nuovo futuro non sarà solitudine piena,
ma costante e incolmabile
mancanza.
Non senza risate,
ma con una partita di pianti mai ordinata,
pagata salata.

Il mio nuovo futuro non sarà forse privo di
scoperte, gioie,
amici, incontri.
Ma non ritroverà mai
- per quanto impossibile sarebbe scoraggiarne le ricerche -
il privilegio più importante
scivolato al passato:
la semplice,
irripetibile,
vera
(quasi ingiusta)
FeLicità.



Roma, Novembre 2009

domenica 1 novembre 2009

La colazione dei campioni


Devo dire la verità: non me lo aspettavo proprio.
Quando, tempo fa, lessi il post di Paola Barbato che consigliava l'acquisto a scatola chiusa del primo romanzo della collega e amica Micol Arianna Beltramini, mi sono fidato subito. Siccome però della trama non sapevo nulla (nè avevo letto alcunchè della Beltramini in precedenza), ero in effetti un pò scettico. Allo stesso modo non ho voluto indagare sull'autrice, leggere recensioni nè cercare di scoprire di cosa parlasse il suo CORNFLAKE. O per lo meno, non al di là delle poche informazioni captate nel famoso post della Barbato. Mi sono detto: insomma! o si fa l'acquisto davvero a scatola chiusa e si scommette un pò con sè stessi, o non lo si fa proprio in quel modo. Non ha senso "sbirciare", sollevando una linguetta del cartone per intravedere il colore o captare l'odore - ancora incellofanato - di ciò che contiene. Giusto per mantenere la metafora.
Cosa posso dire ora che l'ho terminato?
Che si è rivelata una lettura fresca, intelligente, tenera e cinica nello stesso tempo ma soprattutto nostalgica. Il suo parallelismo dichiarato con Pinocchio e con - a tratti - Il piccolo principe potrebbe (vorrebbe) inizialmente ingannare sulla reale adultità della storia raccontata. Ma ben presto si affacciano situazioni e temi che, se da una parte non appesantiscono MAI la narrazione, dall'altro di certo toccano corde emotive difficili da ignorare. Che poi, è esattamente quello che fanno anche le fiabe più riuscite.
Anche le citazioni di Collodi che aprono i singoli capitoli del libro vengono in qualche modo smentite e capovolte durante la lettura, spiazzando le nostre aspettative sui nuovi personaggi e sugli intrecci che si vanno delineando e allontanandole dalla linea guida della rassicurante e nota fonte originaria.
Il tema più "spinoso" che può emergere da questa storia, così piacevolmente anarchica, è quello dell'amore senza confini in senso assoluto. Un amore puro, che non può essere spiegato secondo canoni di opportunità sociale, di appartenenza familiare o di ricerca sentimentale, ma che esiste. E solo per questo merita dignità e non goffe giustificazioni.
E poi, sebbene i caratteri delle due protagoniste siano molto differenti, è impossibile che non si instauri fin dalle prime pagine una forte associazione visiva fra la piccola Cornflake e la minuscola Memole. I disegni (della stessa Beltramini) che illustrano la storia ritraggono solo Cornflake in diversi momenti, ed i suoi tratti riprendono a piè pari quelli del folletto più famoso del nostro immaginario pop-nipponico.
E la mente corre subito a quel cartone, dai disegni così particolari, dove veniva raccontato un'altro amore puro: un'amicizia salvifica, che ai nostri occhi di bambini sembrava quasi un delitto dover tenere nascosta.

Non posso fare altro che consigliare questa lettura. Non riesco ad immaginare un profilo di lettore che non apprezzerebbe.
Non in questo caso, davvero.



domenica 25 ottobre 2009

Collabor-Azione(!)


Dopo il mio impegno, ancora mai annunciato su questo blog, col portale di informazione fumettistica MANGAFOREVER (vera manna per gli appassionati del settore e del quale io stesso ero e sono fan da tempo), ci tenevo a dichiarare la mia recente collaborazione con un'altra testata virtuale, più giovane e per ora meno famosa ma decisamente ben fatta:

DOPPIOSCHERMO - NOTHING BUT CINEMA.

Si tratta di una rivista online di cinema tout-court, con news, interviste, resoconti, recensioni di film, saggi e quant'altro.
Un piccola realtà editoriale che sta lentamente crescendo e alla quale auguro, da collaboratore e amico, di avere la visibilità ed il riconoscimento che merita.
In questo periodo, vi trovate anche un'ampia sezione dedicata alla freschissima Festa del Cinema di Roma.
Ci sono ancora dei problemucci di usabilità per l'accesso agli articoli, ma in linea generale la copertura degli ambiti trattati e la grafica del sito sono - a mio parere - molto incoraggianti.

Nonostante ultimamente i commenti al mio blog siano stati un pò più fiacchi del solito, spero ugualmente col presente post di invitare e convincere i miei amici e conoscenti virtuali (e non solo) ad esplorare il sito di DoppioSchermo e - magari - di affezionarvisi un pò nei prossimi giorni.

Insomma: qualche volta sarà pure lecito fare un pò di (auto)promozione. O almeno spero. La legislazione sui blog minaccia di cambiare fin troppo spesso, di questi tempi.
Ed in maniere non sempre prevedibili...

mercoledì 21 ottobre 2009

L'inquisitore e il sardonico



- Cosa pensi del sesso prima del matrimonio?
- Che è l'unico?

venerdì 16 ottobre 2009

E se lo dice Zach...


Ci sono migliaia di gruppi e fan-page in Facebook. La maggior parte sono solo fenomeno di costume e puro cazzeggio, così come i giochini ed i quiz o le svariate applicazioni che vi si moltiplicano giorno dopo giorno.
Ora, concentrando l'attenzione solo su gruppi e fan-page, la mia tesi è che questo tipo di adesioni possono avere senso - sempre quando oculate - solo per due scopi: far conoscere i propri gusti culturali e mediatici alle persone che si erano perse di vista da un pò o che non si conoscono ancora bene, in modo che si possa reciprocamente valutare quanto valga la pena recuperarsi o approfondirsi al di là della mera aggiunta fra le proprie "amicizie" FB; e (cosa per me principale) ricevere, quando il gruppo o la pagina in generale è ben gestita, aggiornamenti e notizie sul fenomeno oggetto dell'adesione.
In questo modo, ho potuto in questi ultimi anni scoprire eventi, concerti, aneddoti che mi hanno permesso di approfondire la conoscenza di piccoli oggetti di culto personale: serie, personaggi, musicisti, eccetera.

Premesso ciò, una delle fan-page a cui mi sono iscritto ai primordi della mia vita FB è stata quella di Zach Braff. Io adoro Zach Braff, e quando aderii al suo gruppo ancora non conoscevo il secondo scopo prima citato: il mio era un atto puramente dichiarativo.
Ma poi mi sono reso conto che cominciavano ad arrivare, da ogni parte del mondo, aggiornamenti e notizie riguardanti le varie pagine cui avevo aderito. E fra queste, anche quella di Zach.
Nel corso dei mesi, da molti gruppi mi sono disinscritto. Però ricevere le perle di saggezza (o di pura follia) di Zach, o suoi video postati da lui in persona, non mi dispiaceva. E continua a non dispiacermi.

Ma veniamo al nucleo di questo post.
In uno degli ultimi aggiornamenti, Zach ha reso partecipe i suoi fan di una sua valutazione mediatica relativa alle nuove serie in onda questa stagione. La frase recitava:
The new show "Modern Family" is quite funny. Also, I like sugar free Red Bull. My dog, Roscoe likes Polly O String Cheese.


Va bene, togliamo pure la deriva intimista della seconda parte. Ma se Zach Braff - tuttora protagonista di SCRUBS - consiglia una nuova serie, probabilmente c'è da ascoltare il suo consiglio.
E subito sono andato a recuperare il primo episodio, sottotitolato, di questo MODERN FAMILY.

Non mi dilungherò affatto nè sulla trama, nè sui personaggi, nè sulla curiosità stilistica del finto reality/documentario. Riporto qui solo un dialogo preso da una delle "interviste". E' la scena che trovate nel video qui sotto, al 59mo secondo.
Davanti alla telecamera, una giovane moglie ispanica col suo anziano secondo marito. Il tema: suo figlio, avuto col primo marito, e la sua impulsività emotiva.

LEI: "Manny è molto passionale, proprio come suo padre. Il mio primo marito era molto affascinante ma troppo pazzo. Era come se non facessimo altro che litigare e fare l'amore, litigare e fare l'amore, litigare e fare l'amore, litigare e fare l'amore... Una volta, non sto scherzando, siamo caduti insieme dalla finestra!".
LUI: "Quale delle due cose stavate facendo?"
(e guardando in camera, nell'imbarazzo generale) "E' la prima volta che sento questa storia..."

Ecco, se proprio mi devo sbilanciare, posso dire: guardatelo anche voi.
Io con Scrubs ormai non rido così da tempo.




domenica 11 ottobre 2009

Order Made


Ho poco da raccontare del Romics di quest'anno: solito giro tra gli stand dei fumetti (ma con pochissimi ritrovamenti emozionanti), un pò di gran galà del doppiaggio, un paio di incontri più "accademici" con addetti ai lavori, fiumi di cosplayer - i cui riferimenti, anno dopo anno, riconosco sempre meno - e una crepe alla nutella decisamente anemica.
Quello che davvero meriterà di essere ricordato, per me e tutti i presenti che hanno assistito all'evento, sarà di certo la proiezione di un bellissimo videoclip animato montato su una canzone giapponese a dir poco spettacolare. Almeno considerando gli standard di banalità e melassa del JPop contemporaneo.

Purtroppo non sono riuscito a ritrovare proprio QUEL video, che sono certo fosse un'antemprima, e che tra l'altro aveva anche dei praticissimi sottotitoli in italiano.
Ho però recuperato il video musicale originale della canzone con i sottotitoli in inglese.
Certo: l'impatto visivo e la non-immediatezza della comprensione non restituiranno le stesse suggestioni di cui ho potuto godere io di fronte a quel megaschermo. Ma garantisco che chi avrà la calma di guardare il video ed ascoltare questa canzone leggendo - nel caso l'inglese risultasse ostico - almeno la mia traduzione qui sotto, non ne rimarrà in alcun modo indifferente.
Se poi dovesse farlo anche due, tre o più volte, non mi stupirei affatto.

Buona visione e buon ascolto.



Mi fu chiesto probabilmente da qualcuno, da qualche parte,
perfino prima che nascessi:
“Io posso mostrarti il passato o il futuro:
quale preferisci?”

“Credo che sceglierò il passato,
cosi da diventare una persona dolce
piuttosto che una persona forte,
in modo da poter comprendere cosa siano i ricordi”.

Andando avanti, quel Signor Qualcuno mi disse:
“Ti darò braccia e gambe e bocche
ed orecchie ed occhi e seni,
tutto a coppie. Ti va bene?”

“Scusi, ma avrei una richiesta”.
Dissi che mi sarebbe bastato avere una sola bocca
così non avrei potuto litigare con me stesso
e avrei potuto baciare solo una persona.

Vorrei dimenticare ma non ci riesco
Come si può chiamare questo tipo di sentimento?

Con un po’ di delusione, la persona parlò di nuovo:
“I cuori sono molto importanti
perciò li metterò dietro ciascuno dei tuoi seni:
va bene?”

“Un momento, un momento, avrei un'altra richiesta.
Sono desolato, ma a dire il vero non credo di aver bisogno di un cuore sul lato destro.
Mi scuso per queste richieste egoistiche...
E' che in questo modo, quando troverò l’amore
e l’abbraccerò stretto a me per la prima volta,
solo allora dovrò poter sentire due cuori
battere ciascuno in un lato:
il mio a sinistra, il tuo a destra
il tuo a sinistra, il mio a destra.
In questo modo, quando sarò solo, mi mancherà sempre qualcosa,
e da solo non potrò vivere."

Vorrei dimenticare ma non ci riesco
Come si può chiamare questo tipo di sentimento?
Mi batte il petto ma c’è qualcosa di familiare
Come si può chiamare questo tipo di sentimento?

"Oh, a proposito, c’è un’ultima cosa:
ti piacerebbe aggiungere l'opzione lacrime?
Anche senza, non ci sarebbero problemi
ma siccome tendono ad essere fastidiose, alcuni non le vogliono.
Cosa preferisci?”

Alla fine gli chiesi di aggiungerle,
così avrei capito cosa significa
avere a cuore qualcuno,
così avrei capito cosa sia l’importanza.

“Ah, già che ci siamo,
dovresti scegliere il sapore delle tue lacrime.
Le abbiamo acidule, salate, piccanti, dolci,
Scegli quelle che ti piacciono.
Quali vuoi?”

“[Bene,] Tutto è stato assemblato come richiesto,
perciò asciuga via quelle lacrime amare
e lasciami vedere il tuo volto.
Ora, mostralo con orgoglio.”

“Davvero, grazie mille,
grazie di tutto,
ho solo un’ultima domanda:


Ci siamo mai incontrati prima?”

domenica 4 ottobre 2009

Esercizio grafico con verità sintattica.


La bellezza
La felicità
L' amore

Metafisica a parte, hanno innegabilmente una cosa in comune.

Una iniziale ed imprescindibile
L maiuscola.

giovedì 1 ottobre 2009

Incipit musical-testuali nostrani adesivi: un podio palindromo. Ed un outsider...


In realtà, ce ne sarebbero a dozzine. E se la cosa non fosse circoscritta per lo più agli anni 90 ed al solo contesto italiano, probabilmente servirebbe almeno una top20. Palindroma.
Ma siccome sono un nostalgico, ed i miei post seguono spesso suggestioni circoscritte e generazionali, questa volta accontentatevi solo di questo.


I°) "Signore è stata una svista: abbi un occhio di riguardo per il tuo chitarrista" (Ivan Graziani);

II°) "Santi numi ma che pena mi fate, strozzati inghiottiti come olive ascolane" (Max Gazzè);

III°) "Oderc ni em, oderc ni em" (Carmen Consoli)

II°) "Tappetini nuovi arbre magique, deodorante appena preso che fa molto chic" (Max Pezzali)

I°) "Mi alzo ma è meglio se torno a dormire, mi metto a studiare ma senza capire" (Marco Masini)


L'outsider:
"La faccia nel vento il ferro nel braccio, ti guardi d'intorno con gli occhi di ghiaccio, non senti dolore con lo sguardo nel sole"
(Nico Fidenco, Sam Il Ragazzo del West)



lunedì 28 settembre 2009

Inglorious dubbers


Non potevo aspettare: ho visto il nuovo (capo)lavoro di Tarantino in terra ispanica, in un cinema dove lo proiettavano in lingua originale con i sottotitoli.
Spesso dei dialoghi molto serrati non mi hanno permesso di leggere proprio tutti tutti i sottotitoli. Inoltre, laddove l'audio americano avrebbe potuto aiutarmi ad integrare i gap della lettura, l'accento marcato e lo slang sguaiato di Brad Pitt - principale causa della mia emicrania traduttiva - mi ha talvolta confuso ancor più le idee.

In generale, non saprei quantificare quello che perdo quando guardo un film sottotitolato. Sentii tempo fa che per leggere i sottotitoli di un film si arriva a perdere dal 40% delle immagini in su. E analisi più complicate calcolano addirittura la copertura media dell'immagine ad opera dei sottotitoli (in base al tempo di impressione ed alla grandezza dei caratteri), quantificandola in un modo che non ricordo più.
Ovviamente a questi fattori se ne aggiungono anche altri più soggettivi: il grado di attenzione che si sviluppa all'ascolto di una pellicola in versione originale, la personale velocità di lettura in generale - e dei sottotitoli in particolare -, la tendenza a distrarsi dalla narrazione per cercare di ricondurre il sottotitolo tradotto al dialogo originale quando la conoscenza dell'idioma lo permetta, la naturale propensione a perdere passaggi di intrecci e fabule per concentrarsi su dettagli scenici e incongruenze (o solo per limite personale), eccetera eccetera.
Ed è abbastanza intuibile anche come questo improvvisato elenco sia del tutto autobiografico. Ed in senso negativo.
Ma a prescindere da questo argomento generale - già oggetto di vasta letteratura - posso in questa sede dire che io, in quanto fan delle lingue, della traduzione, dei giochi linguistici e del doppiaggio, quando posso (e quando credo ne valga la pena) cerco di vedere ed ascoltare sia la versione originale che quella doppiata.

Quello che però mi chiedo relativamente al nuovo film di Quentin è questo.
Dato che nel film ci sono dialoghi:
- in americano,
- in francese,
- in tedesco,
e persino
- in italiano,
come diavolo si fa a doppiarlo?
Alla fine, come si fa sempre in questi casi, credo che si doppi solo la lingua madre del film e si usino i sottotitoli per le scene in altre lingue. Ma come faranno qui da noi per la sequenza in italiano? Cambieranno la nazionalità dei personaggi in questione, magari stravolgendo anche i riferimenti e gli equilibri politici del contesto bellico scelto, od opteranno per il solito dialetto napoletano/siciliano del caso?
Sono abbastanza trepidante, lo ammetto. Non credo che potrò evitarmi molto la lettura di altri sottotitoli, ma almeno recupererò qualche brillante perla dialogica smarritasi in quel di Siviglia.
E soddisferò la curiosità di capire che cavolo di accento/intenzione/intonazione intende trasmettere quel bastardo di Brad Pitt.



giovedì 24 settembre 2009

Oh Mamma... (o Sul dramma dell'Apolidismo incorporeo del Dr. Sam Beckett)

E' curioso che una delle serie che annovero nella mia top ten personale in realtà non l'abbia ancora mai vista nella sua interezza. Potrebbe addirittura per questo essere azzardata la seguente rflessione, ma è una cosa che mi ronza in testa da troppo tempo per poterla ignorare.
Per chi abbia seguito ed amato QUANTUM LEAP - IN VIAGGIO NEL TEMPO, probabilmente l'episodio che più immediatamente sale alla memoria è l'ultimo. Ma riassumere la trama di questo mitico telefilm - o ancor più del suo splendido epilogo - ruberebbe troppo tempo e spazio in questa sede, perciò per ora darò per scontata la sua conoscenza.

Ora: quello che mi sconvolge della conclusione della storia, a prescindere dalle suggestioni cristologiche varie, è proprio il passaggio dello status del protagonista da viaggiatore temporaneo ad apolide incorporeo. Fino ad un certo punto, i suoi salti e le sue missioni (sulle quali si potrebbe scrivere un blog a se, a partire dai paradossi causa-effetto fino agli inevitabili effetti farfalla concatenati) presupponevano un apolidismo momentaneo, forzato, immateriale. La non-piú-appartenenza al suo sistema originario era solo il frutto di un fattore esterno improvviso sebbene autoprovocato (un esperimento andato a male), il suo vero corpo fisico era in uno stand-by indeterminato, e la voglia di tornare a casa rappresentava l'incentivo e lo stimolo per andare avanti nella sua missione inconsapevole. Ma dopo l'"incontro decisivo" della puntata finale e l'agnizione che ne deriva, le premesse vengono irrevocabilmente smontate e la stessa prospettiva esistenziale e progettualità futura assumono contorni ancora più marcatamente metafisici. Il viaggio non avrà mai una destinazione finale, se non - questo è implicito - per il deperimento di un corpo fisico ormai estraneo ed irricongiungibile. Ed il precedente apolidismo temporaneo e subìto, plasmato da una rinnovata coscienza messianica, si trasforma in una consapevole missione senza ritorno. Drammatica nella sua schietta e reale inevitabilità, peraltro abilmente celata fin dall'inizio (e rivelata addirittura da una riuscitissima allegoria di un credibilissimo Creatore).
Qui sta il nodo di tutta la faccenda. Non siamo più dalle parti del giovane 'Ntoni, il primo grande "escluso" della letteratura italiana, che alla fine della vicenda narrata ne I Malavoglia non appartiene più nè alla città nè al suo paese natio. Qui si apre la porta ad una riflessione assai più angosciante: la prospettiva del non tornare e del non rimanere; di un apolidismo eterno, segreto, consapevolmente incomunicabile ed ora irreversibilmente incorporeo.

Ed io me lo immagino ancora lì, il buon Sam, a saltare da una vita all'altra, senza più l'aiuto e la spalla del buon Al, ignorando probabilmente COME si siano svolti i fatti passati alternativi che porteranno a completare - senza il suo amico - quello stesso progetto che lo metterà nella sua attuale prigione quantica, per di più sapendo che la sua futura continuità esistenziale sarà pressochè evanescente sotto quasi tutte le variabili spaziotemporali da lui stesso studiate e valutate sempre così attentamente.
E senza più nemmeno un pubblico per le successive e solitarie avventure, persino il suo amabile tormentone (nonchè titolo di questo post) sarà destinato a cadere nel vuoto, senza piú la spettacolare amplificazione del cliffhanger di fine episodio data dalla solita scritta "Executive producer Donald P. Bellisario".

Tutto questo riguarderà un altro pubblico, un'altra storia. Un'altra vita.
Quella precedente.
Sempre che abbia più senso parlarne.


lunedì 21 settembre 2009

Ironìa de la suerte

Nuova canzone degli Efecto Mariposa, NO PUEDO (Non Posso).
Stavolta, sin comentarios...




No, no me veo capaz de mirarte y decir lo que siento.
No hay razón ni motivos, no hay pretextos.
No, no me falta tú amor, no me falta nada en concreto,
Solo soy yo la que me busco y no me encuentro.
Como aquella canción que se olvida sin más,
Como parte de un cuadro incompleto.
Como actor secundario con triste final, como nada así me siento.
Y es que no puedo o es que no quiero,
Ya no sé si es peor continuar o partimos de cero.

Es que no puedo o es que no debo,
No sé ni por donde empezar si te digo te quiero me miento.
Es que no puedo...
Es sufrirte tan cerca, es hecharte de menos tan lejos,
Un porqué sin respuesta, es un quiero y no puedo.

Cuantas veces más debo callar?
Cuantas veces más tengo que huir?
Cuantas veces te pude contar? Pero nunca me atreví.

Como aquella canción que se olvida sin más,
Como parte de un cuadro incompleto.
Como actor secundario con triste final,
Como nada así me siento.
Y es que no puedo o es que no quiero,
Ya no sé si es peor continuar o partimos de cero.

Y es que no puedo o es que no debo,
No sé ni por donde empezar si te digo te quiero me miento.
Es que no puedo...
No puedo y es que no debo o no quiero.
Y es que no puedo y es que no quiero ya no sé
Si es peor continuar o partimos de cero.

Y es que no puedo o es que no debo,
No sé ni por donde empezar si te digo te quiero me miento.
Es que no puedo...


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No, non mi vedo capace di guardarti e dirti ció che sento,
Non c'è ragione nè motivo, non ci sono pretesti.
No, non mi manca il tuo amore, non mi manca nulla in concreto,
Sono solo io che mi cerco e non mi trovo.
Come quella canzone che si dimentica così,
come parte di un quadro incompleto,
Come un attore secondario dal triste finale,
come il nulla: così mi sento.
È che non posso o è che non voglio
non so più se è peggio continuare o partire da zero.

È che non posso o è che non devo,
non so nemmeno da dove iniziare: se ti dico "ti amo" mento a me stessa.
È che non posso...
È soffrirti così vicino, è sentire la tua mancanza così lontano,
Un perchè senza risposta, è un voglio e non posso.

Quante volte ancora devo tacere?
Quante volte ancora devo ascoltare?
Quante volte potevo dirtelo? Ma non ho mai avuto il coraggio.

Come quella canzone che si dimentica così,
come parte di un quadro incompleto,
Come un attore secondario dal triste finale,
come il nulla: così mi sento.
È che non posso o è che non voglio,
non so più se è peggio continuare o partire da zero.

È che non posso o è che non devo,
non so nemmeno da dove iniziare: se ti dico "ti amo" mento a me stessa.
È che non posso...
Non posso, ed è che non devo o non voglio.
È che non posso ed è che non voglio,
non so più se è peggio continuare o partire da zero.

È che non posso o è che non devo,
non so nemmeno da dove iniziare: se ti dico "ti amo" mento a me stessa.
È che non posso...

mercoledì 16 settembre 2009

Ma dì soltanto una parola...


Una delle ultime folgorazioni personali in ambito seriale mi è arrivata dall'iperpubblicizzato LIE TO ME.
Ad avermi incuriosito, prima ancora di conoscerne trama e casa di produzione, erano stati i giganteschi primi piani di Tim Roth che campeggiavano - e campeggiano tuttora - su enormi cartelli pubblicitari sparsi per Roma. Io ho sempre amato questo attore, e l'idea che anche lui avesse finalmente ceduto all'ottima moda della serie televisiva era ovvio facesse presagire un prodotto dalla qualità notevole. In effetti, LIE TO ME è un telefilm molto ben fatto: interessante, ottimamente recitato e dalla regia non banale. Di certo non si raggiungono le vette di realismo delle serie HBO, ma siamo senza dubbio dalle parti d Dr House e di altre pregevoli serie FOX.
La trama è molto semplice: il protagonista (Dr. Cal Lightman) è fondatore e capo di un'agenzia che collabora con polizia, FBI, enti o anche privati cittadini, per fornire consulenze sull'interpretazione di confessioni varie al fine di comprendere se gli interlocutori dicono la verità oppure no, se nascondono qualcosa, se dai loro racconti traspaiono sentimenti precisi che possano aiutare a comprenderne le motivazioni reali. Ovviamente la costruzione dell'episodio procede come un giallo, con continue agnizioni ed improvvisi ribaltamenti dell'indagine, in pieno stile poliziesco (o House). In genere in ogni puntata vengono affrontati parallelamente due casi, e non sempre è possibile definire uno dei due "minore". I personaggi secondari acquisiscono peso poco a poco ma, esattamente come accade nella serie dell'irascibile diagosta collega di network, non riescono a mio parere a stare al passo con l'eccentrica genialità interpretativa e carismatica del loro capo.
Una delle cose più belle della serie è che spesso, quando si illustrano e spiegano le intenzioni celate da determinati gesti, si mostrano delle immagini di personaggi famosi colti nella stessa espressione, in contesti dove evidentemente questi manifestavano (o nascondevano) quegli stessi sentimenti.
Ultimo appunto stilistico: i titoli di coda non sono niente male...

La seconda serie inizierà negli USA questo mese, non ho ancora scoperto quando. Ma a tutti i curiosi e gli scettici, consiglio di non perdere l'edizione italiana della prima serie attualmente in corso.
La voce che hanno scelto per il Dr Lightman è quella di un vero mostro di bravura e, anche se non è la voce ufficiale di Tim Roth, da al personaggio un'ottima caratterizzazione. E lo dice uno che ha visto la serie in originale coi sottotitoli tranne i primi due episodi...

La riflessione sulla quale volevo soffermarmi è però un'altra: il tremendo fascino esercitato dal tema principale di Lie to me, ovvero lo studio delle mircoespressioni per l'interpretazione della verità enunciativa, lo avevo già subito pochi anni fa proprio da un'altra serie targata FOX. Peraltro, da un episodio quasi "anomalo" rispetto allo stile generale della serie. Mi riferisco in particolare ad una puntata della II serie del mio amato Prison Break, in cui i fuggitivi diffondono un videomessaggio "depistante" perchè pieno di elementi gestuali contraddittori rispetto alle parole pronunciate. In realtà si tratta di una delle sequenze che più mi sono rimaste impresse dell'intera saga di Michael Scofield, cervellotica ed intrigante come poche altre. E mi sembra giusto postarla qui come chiave di questo post.
Nella mia mente, non smetterò mai di pensare che il gradimento di questa scena di Prison Break (e in generale dell'episodio ad essa relativa) abbia giocato da prova generale per il concept di Lie to me.
Si, so che sembra un ragionamento forzato, ma ogni nerd ha le sue piccole suggestioni.
E poi, sbirciando qua e la sul web, potrei sempre trovare qualche conferma a questa mia tesi. Solo che lì non avrò alcun indicatore gestuale, ahimè, su cui basarmi...



domenica 13 settembre 2009

Sopracciglia a confronto: DIABOLIK vs GOLGO 13



Non so se Cesare Lombroso, padre della criminologia moderna, avesse contemplato anche la forma delle sopracciglia nel delineare il profilo dei tipi fisici predisposti alla criminalità. Ma anche abbandonando qualunque suggestione fisiognomica, è impossibile non pensare che ci sia una connessione fortissima tra i due protagonisti a fumetti di cui parlerò in questo post, proprio a partire dal loro sguardo e dalla minacciosa forma delle loro rughe frontali.
Uno di essi è il nostrano e famosissimo Diabolik. L'altro personaggio lo si potrebbe in qualche modo considerare un suo fratellone giapponese, e sebbene da noi non abbiano mai pubblicato le sue avventure, la sua fama mondiale non è affatto trascurabile: sto parlando di GOLGO 13.
Per quanto riguarda la trama e la vita editoriale di questo longevo manga e delle sue trasposizioni televisive, rimando a questo e a questo post del buon Faust VIII. Qui mi limiterò a rilevare le differenze fra i due impassibili assassini.

Innanzitutto Golgo13 inizia la sua avventura editoriale nel 69, quando Diabolik già affollava le edicole italiane da sei anni.
A livello di stile e di trama bisogna dire che, nonostante le ingenuità stilistiche di entrambe le serie, Golgo 13 si rivela un'opera molto più matura e d'autore rispetto a Diabolik.
Il genere a cui si può ascrivere il suo fumetto è quello "yakuza" e, essendo il suo protagonista fortemente ispirato alla figura di 007, le sue tematiche sono infarcite di spionaggio, guerra fredda, esperimenti per il controllo del potere politico, creazione di superarmi belliche, giri di droga e prostituzione, eccetera.
A differenza di Diabolik, Golgo 13 non è un trasformista nè un ladro. E' un sicario prezzolato di primo livello sulla scena mondiale, ed è conosciuto dai governi e dall'intellingence di tutto il mondo. Inoltre, nonostante abbia dei rifornitori o dei professionisti di fiducia cui rivolgersi, Golgo agisce sempre da solo, senza quindi una partner fissa con cui venire perennemente a compromessi (come sempre più frequentemente accade al nostrano Re del Terrore, spesso costretto a prendere parte a crociate umanitarie o di principio solo per i capricci della sua bionda ed emotiva compagna).
Ancora: l'universo di Golgo 13 è costellato di riferimenti a paesi, date e personaggi reali. E nonostante il solito fumettistico paradosso dell'invecchiamento pressochè inesistente del protagonista, la definizione spaziale e temporale degli eventi conferisce alla narrazione una dimensione decisamente più realistica, coraggiosa e talvolta di denuncia politica e sociale molto forte. E permette tra l'altro una varietà tematica che il ristretto universo di Clerville, con le sue interminabili mostre, feste e corna raramente può permettersi di sfiorare.
Dal punto di vista narrativo, l'assenza di imbarazzanti spiegoni concentrati in affollati balloon di pensiero e didascalie rende quasi sempre le storie di Golgo 13 più criptiche e meno psicologicamente definite di quanto non accada in Diabolik, e questo è un bene sia per il fascino del taciturno protagonista -e dei suoi sempre interessanti clienti - che del taglio noir delle storie.
Anche i riferimenti adulti sono senza dubbio molto più "adulti" in Golgo 13, laddove gli omicidi e le scene di seduzione o sesso sono molto più esplicite e crude che in Diabolik. E sebbene nessuno dei due assassini sia solito uccidere senza motivo, e soprattutto persone innocenti, non si può non cogliere nella imperturbabilità di Duke Togo (vero nome di Golgo 13) una nota di crudezza maggiore che nel suo avo italiano.
Importante è anche il modo in cui è stato trattato il passato del protagonista nipponico rispetto a quello del nostro. Oltre al fatto che nelle storie di Golgo 13 il protagonista è spesso solo quasi una "comparsa" finale, che risolve professionalmente una lunga vicenda dove apparentemente lui non sembrava aver alcuna voce in capitolo fino a poche pagine dalla sua conclusione (cose che in Diabolik succedeva solo nelle primissime avventure), c'è anche da dire che l'autore è riuscito, nel corso di 40 anni, a rivelare ben poco di lui. In Italia invece, Diabolik sta vedendo da diversi anni una serie di episodi speciali (e non solo) che stanno sviscerando sempre di più il suo passato e le sue motivazioni - già esaustivamente frutto di rivelazione nel mitico albo Diabolik chi sei? del 1968 -, nonchè quelli dei suoi coprotagonisti. Operazione che, inutile persino dirlo, nonostante il fascino dell'agnizione momentanea, rischia però di ledere il fascino del protagonista e del suo universo, nonchè di passare irrimediabilmente di moda nel corso di qualche lustro.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire, ma direi che per ora questo può bastare.
Mi preme aggiungere che i soli episodi da me letti finora sono quelli di una preziosa edizione spagnola dedicata a Golgo 13 ed intitolata Los mejores 13 episodios de Golgo 13, una raccolta antologica che unisce i 13 più bei racconti secondo l'opinione dei lettori. E' quindi facile pensare che il mio attuale entusiasmo per la scoperta di questo personaggio sia filtrata dalla selezione delle sue storie meglio riuscite, ma credo di poter valutare che la media del manga originale sia comunque molto prossima a quella delle pagine lette qui in Spagna.

Prima di concludere, volevo solo elencare alcune delle cose più fighe che ho visto (letto?) fare a questo nipponico killer dal biblico nome in codice:
- centrare in testa un dirottatore in un aereo a 2 KM di distanza dall'obiettivo (calcolando quindi vento, umidità, movimenti, e tutti i vari fattori che influiscono su un tragitto balistico così lungo);
- spezzare con un proiettile, dal loggione di un teatro, la corda di un violino in movimento durante un concerto (foto in basso, per avere un idea del contesto);
- sparare, all'età di TRE ANNI, alla madre malata terminale mentre il padre era andato a chiamare il dottore, e tra l'altro in piena fronte. E non è dato sapere al lettore se questo gesto fosse dettato dalla pietà per l'agonia della genitrice o dal sangue assassino che scorreva già nelle sue vene per colpa del suo DNA corrotto da avi spietati e pericolosi;

INFINE, ultimo ma non ultimo:

- fabbricare, fra la degenerazione fisica e la perdita di lucidità della galoppante malattia contratta, un miracoloso vaccino ad una pericolosa variante dell'ebola individuando da solo l'unica scimmia non infetta - e quindi con gli anticorpi - fra quelle che avevano diffuso il virus, prelevandone il sangue ed usando la ruota motrice della macchina, appositamente cappottata, come centrifuga di separatore ciclico per isolare il siero tramite un complesso ma spartano meccanismo improvvisato. Tutto questo, ovviamente, dopo fughe improbabili, omicidi di precisione ed innumerevoli altri stress.

Altro che Re del Terrore. Qui siamo dalle parti dell'inferno puro. Del resto, per ricordare nel suo nome il monte dove fu crocifisso Gesù (tralasciando la simbologia di quel nefasto numero), credo che l'autore avesse chiara la cifra della sua opera fin dall'inizio...



sabato 12 settembre 2009

Visioni

Potrebbe essere questo il prossimo film che vedrò al cinema qui in Spagna:



Il fatto che sia un film spagnolo - e che quindi i suoi dialoghi saranno più rapidi, meno chiari e pregni di espressioni colloquiali - potrebbe essere una sfida ancora prematura. Ma devo dire che questo trailer non mi dispiaciucchia.
E non sia mai che si dica in giro che io non accetto le sfide.

mercoledì 9 settembre 2009

Asse Tokio Roma Madrid,

o Dell'improbabilità degli accostamenti socioculturalgastronomici del nuovo millennio, si potrebbe azzardare.

La mia ultima comida rápida qui a Siviglia non è stata una nostalgica e patriottica pasta con olio/burro o riso in bianco; nè una sostanziosa ed economica tapa di carne sotto casa; nè una tazza di latte con cereali o biscotti, o due salvifiche fette di pancarrè con la nutella.
Carpendo la segnalazione del coinquilino nipponico, ho comprato un paio di pacchetti di un cibo che per tanti anni (da Maison Ikkoku in poi) hanno affollato il mio immaginario relativo al Sol Levante.

Ecco qui uno dei due. Quello rimasto.


L'altra busta era di una marca rigorosamente giapponese, ma l'ho cucinata e buttata ieri.
Prezzo cadauna: SESSANTA CENTESIMI.

E mentre mi gustavo e sudavo i miei bollenti ramen istantanei comprati dal cinese sotto casa, spiegavo alla mia nuova coinquilina austriaca, in inglese, cosa stessi mangiando (e perchè), mentre lei traduceva divertita al suo ragazzo in tedesco e lasciandosi scappare qualche entusiastico commento in spagnolo.

Dopo cena, ho terminato la lettura di un prezioso tomo in lingua spagnola con l'edizione nazionale di un famoso manga giapponese che in Italia non arriverà mai ma del quale molti esperti ed appassionati nostrani conoscono l'esistenza e rimangono in speranzosa e trepidante attesa (ne parlerò senza dubbio prossimamente, con un post comparativo sopraccigliare).

Giovedì sera il mio amico nipponico inviterà due sue connazionali per cucinare tempura e mangiarlo tutti insieme, e poi raggiungere i loro compagni di corso di spagnolo e tuffarsi nella scolastica lingua veicolare con alterni risultati.

Ah, dicevo, la mia cena veloce di ieri sera.
Ecco l'effetto finale.


La tazza blu sbeccata e la luce artificiale giallastra della cucina sul tavolo di legno renderebbero perfettamente l'idea della decadente quotidianità di uno studentello universitario squattrinato giapponese, no?
Beh, mancano le bacchette, quello si. Ma volendo, si potrebbero recuperare in un cuatro y cuatro ocho.

PS:
Volevo postare come immagine principale un montaggio con le bandiere dei tre paesi citati nel titolo, ma alla fine ho optato per omaggiare solo la quarta parola dello stesso. Una soluzione decisamente più semplice e pratica, che lì per lì mi era sembrata buona.
Solo che ora ho qualche ineffabile perplessità...