mercoledì 18 marzo 2009

Due -o tre- Piccioni con una fava


Negli anni adolescenziali in cui cominciavo ad aprire i miei ristretti orizzonti cinematografici internazionali e fracassoni anche alle storie minori ed intimiste di certo cinema italiano, uno dei nomi di registi che amavo ripetere era quello di Giuseppe Piccioni.
Di suo ho visto 5 film, e più o meno tutti recuperati nello stesso periodo. Un paio effettivamente erano molto modesti. Altri invece mi colpirono un pò di più per il loro tocco delicato e per la colonna sonora (indimenticabile quella di Einaudi per LUCE DEI MIEI OCCHI).
Attrice feticcio di questo regista è stata Sandra Ceccarelli, non sempre troppo apprezzata dal pubblico per quel suo aspetto perennemente stanco o sfatto da "donna senza sonno", ma che a me invece affascinava -affascina- parecchio.
La notizia dell'uscita del nuovo lavoro di Piccioni mi aveva subito allertato, e con una certa soddisfazione ho constatato che il regista ascolano continua a dare un peso importantissimo alla componente musicale del suo cinema. Il suo ultimo film, infatti, vede alle musiche un gruppo che qualche mese fa mi aveva letteralmente ossessionato col suo recente album: sto parlando dei BAUSTELLE, complesso rock (o come indica Wikipedia, indie-rock) originale e virtuosamente francofilo.
Spero di riuscire quanto prima a godermi questa duplice esperienza visiva e musicale in una delle poche sale di Roma che proietta il film.

Un altro nome -forse meglio dire "l'altro" nome- italiano che ricorreva spesso in quegli anni era Mimmo Calopresti, che successivamente si è dedicato più al genere documentaristico.
Ma chissà che presto, magari prestissimo, anche lui non torni al cinema.
Così, giusto per calcare questo mio personale ricorso storico...



lunedì 16 marzo 2009

L'immigrazione spiegata a mio figlio


Fu poco prima di Natale. Un vero colpo di fulmine.
Bastò un'occhiata alla copertina per spingermi ad esplorarne l'interno, e bastò quella breve carrellata alle patinate pagine del volume -nonchè la promozione del 20% su tutti i libri- ad impormi l'acquisto
(ok, l'acquisto in realtà lo fece la mia ragazza; ma non è questo il punto...).
Solo in seguito ho letto in giro varie recensioni sul meraviglioso e muto libro de L'APPRODO, e quasi tutte dicevano che si tratta, fra le altre cose, di una splendida favola concepita per i più piccoli.
Beh, se così fosse, questo gioiello sarebbe un buon motivo -probabilmente uno dei pochi- perchè un bambino di oggi possa sentirsi realmente privilegiato.

PS: Il link di prima è molto indicativo per capire di cosa si tratta, sia in quanto a senso generale che a stile grafico. Vi prego: siate curiosi...

venerdì 13 marzo 2009

L'accendiamo?


Uno dei film indubbiamente più belli e spettacolari visti negli ultimi mesi è senz'altro l'ottimo THE MILLIONAIRE di Danny Boyle, i cui meriti sono stati universalmente più stilistici che sociali.
Tuttavia, proprio oggi mi è capitato di leggere su Internazionale un interessante parere della scrittrice Arundhati Roy (famosa soprattutto per il romanzo Il dio delle piccole cose, che non ho letto).
Nell'articolo, pur riconoscendo la bellezza formale della pellicola, l'autrice ne sottolinea in qualche modo la pericolosità ideologica.
Riporto alcuni spezzoni del contributo (mettendo in grassetto le parti più significative):

"The millionaire permette ai cattivi (quelli veri) di prendersi il merito del suo successo perchè non punta il dito contro nessuno, non indica nessun responsabile. Tutti possono sentirsi contenti[...]
The millionaire non solo non scalfisce il mito dell'India 'che risplende', ma trasforma quella 'che non risplende' in un altro elegante prodotto da supermercato[...]
Il cumulo di luoghi comuni, clichè e orrori di The millionaire finisce per banalizzare quello che succede nel paese. Politicamente, il film decontestualizza la povertà, la trasforma in una scenografia epica, dissocia la povertà dai poveri. Trasforma la miseria dell'India in un paesaggio, come un deserto, una catena montuosa o una spiaggia esotica, una cosa creata da dio, non dall'uomo [...]
The millionaire sta vendendo la versione più a buon mercato del grande sogno capitalista, in cui la politica è sostituita da un gioco a premi, una lotteria che permette ai sogni di una persona di avverarsi mentre quelli di milioni di altre persone, paralizzati con la droga della speranza impossibile (lavora sodo, sii bravo e con un pò di fortuna potresti diventare milionario), vengono usurpati."

Direi che si tratta di un punto di vista assai condivisibile, e ancor più carico di intensità se si considera che viene da una scrittrice indiana (anche politicamente impegnata).
Tuttavia, avendo visto quasi tutti gli altri film del regista -il più famoso dei quali rimane TRAINSPOTTING- ed avendo molto amato questo ultimo lavoro, posso dire che non mi è mai passato per la mente che il suo fosse un approccio superficiale alle reali problematiche del paese in cui è ambientata la vicenda.
Sicuramente non si tratta di un film "sociale". Chi lo affermasse, farebbe lo stesso errore che all'epoca fecero coloro che amavano considerare IL MIGLIO VERDE come un film sulla (leggi: contro) la pena di morte, o MYSTIC RIVER come un film sulla pedofilia, eccetera.
Le intenzioni e le storie, in tutti questi esempi, erano altre.
E alla luce di quest'opinione di Arundhati Roy, ora mi chiedo -e chiedo a voi-: in che modo si è autorizzati ad apprezzare il film senza dare l'idea di accettare alcuna svendita della realtà?



mercoledì 11 marzo 2009

Breve analisi di un'aberrazione. Due punti.

Giusto per non prenderci troppo sul serio...

1) "Non sono andato da psicologi psichiatri preti o scienziati, sono andato nel mio passato ho scavato e ho capito tante cose di me".

Ma certo. Tutte le consapevolezze raggiunte sull'influenza nefasta della madre ossessiva e del padre smidollato, e le conclusioni ad effetto come "cercavo negli uomini chi era mio padre, andavo con gli uomini per non tradire mia madre" non VOGLIONO assolutamente SEMBRARE legate alla psicanalisi o alla psicologia.
Come a dire: nessuno mi accusi di abbracciare certe tesi reazionarie sulle cause di questo... di questa... cosa.

2) "Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia, nessuna guarigione".

Stesso discorso. L'alibi di aver raccontato solo una storia dovrebbe essere, secondo l'autore, indicativo delle sue lodevoli intenzioni di NON generalizzare. Ma chissà perchè cantare, su un tema così controverso -sul quale molta disinformazione viene ancora abilmente strumentalizzata- e sul palco del più catalizzante evento mediatico dell'anno, giusto quella storia lì.
Ometto, poi, le analoghe riflessioni sulla doppia negazione finale del binomio malattia/guarigione: un alibi ancor più posticcio e snervante.


E non mi si dica che il punto non è la reale rappresentatività statistica del caso affrontato e cantato, perchè se uno come POVIA (per me perfettamente rappresentato da questa intervista) canta una canzone sull'OMOSESSUALITA' a SANREMO, non può non voler rivolgere una tesi ben precisa ad un pubblico vasto, compiacente e compiaciuto.

Sul tema dell'ambiguità e dell'indecisione sessuale, era molto più onesta ed interessante GINO E L'ALFETTA di Silvestri.
No, non lo dico per scherzo. Provate a riascoltarla attentamente...



domenica 8 marzo 2009

Il lato B dei ricordi


A volte, per condividere l’onda d’urto di un tuffo al cuore con chi può realmente apprezzarlo, basta una semplice foto amatoriale che immortala un ritrovamento inaspettato.
E magari, dal lato più trascurato.
Mentre cercare di spiegare o nobilitare il fenomeno o l’evento illustrato può rivelarsi addirittura ridicolo (quando non deleterio). Per questo motivo, limiterò l’approfondimento al canonico invito ad indagare fra gli sconfinati meandri del web, dove forum e siti nostalgici regalano dettagli e aneddoti per ogni curiosità.

giovedì 5 marzo 2009

Retro-action Vigor(sol?)



Gli amanti della serialità conoscono bene l’artificio narrativo della retrocontinuity, anche se probabilmente non tutti lo chiamano così (o, semplicemente, lo chiamano).
Quando uno sceneggiatore decide di cambiare le premesse, le motivazioni o la storia di un personaggio introducendo un evento nuovo del suo passato che lo trasforma –con varie gradazione di intensità- davanti agli occhi e al cuore del suo fedele pubblico, si sta assistendo proprio al succitato processo, spesso contratto nel più comodo termine retcon.
Ad esempio, se dopo anni e anni di paternità protettiva ed orgogliosa e di palesi manifestazioni preferenzali per il suo ipermascelluto primogenito, Eric scopre che Ridge Forrester non è più un Forrester bensì un Marone, la prospettiva di quello che avverrà in futuro nonché di quello che è già stato dovrà essere letto alla luce della nuova e scabrosa scoperta.
Allo stesso modo, se ad un certo punto della sua vita il mite Peter Parker scopre che il suo primo e defunto amore Gwen Stacy non era il volto più puro e candido degli spensierati anni 60 bensì una fragile ragazza madre vittima (per di più a sua insaputa) di una violenza sessuale, è inevitabile che lo Spiderman che continueremo a leggere dovrà rivedere il suo universo di valori e di icone.

Del tutto diverso è, rimanendo sempre dalle parti del famoso aracnide, se un’azzardata mossa commerciale porta a “resettare” parte del vissuto dell’Uomo Ragno con un paio di diabolici colpi di spugna, eliminando così gli ultimi anni più maturi e realistici della sua esistenza e gli eventi ad essi legati (il matrimonio, la rivelazione della propria identità a zia May, la morte del migliore amico Harry, eccetera). E per di più, con il consenso sofferto dell’eroe e della sua comprensiva e stoica mogliettina.
In quel caso, parlare di retrocontinuity non credo sia propriamente corretto. Oltre al fatto che i nuovi eventi del passato non vengono inseriti bensì cancellati, si ha –a mio parere- un maggiore effetto di offesa all’intelligenza ed alla fedeltà dei fan, i quali sono loro malgrado costretti a non tener conto di (quasi a “dimenticare”) interi cicli di storie del loro personaggio. E se la doccia bollente di Bobby costò solo la filologia di un anno di eventi seguiti gratuitamente da casa all'allora scandaloso DALLAS (la famigerata dream-season), stratagemmi simili applicati al mondo del fumetto possono mortificare mesi e mesi di puntuali –e talvolta costosi- acquisti in soldoni sonanti e fruscianti.

Per non parlare, poi, degli echi orwelliani di questo tipo di pratica revisionista…

E poi, come sempre in qualche modo accade, in tutto questo si inserisce il discorso Lost.
Che, come sempre in qualche modo accade, fa discorso a sé
(e a “se”).



domenica 1 marzo 2009

Nuda non è affatto male


Cosa ne pensate delle cover? Se un cantante o un gruppo vive rifacendo canzoni già famose, come hanno fatto Bublè o i Neri per caso, come lo giudicate?
Io non ho una posizione precisa in merito. A volte, persino quando a produrre la nuova versione di una canzone è lo stesso autore di quella originale, rimango deluso del risultato; altre volte, la cover in questione assume una dignità uguale a -o maggiore de- l'originale. Tutto dipende da come viene concepita.
Ci sono poi delle rare volte in cui le cover non sono solo semplici od originali reinterpretazioni, ma diventano canzoni completamente diverse, con un'altra anima e con differenti obiettivi.
E' il caso della mia recente, reiterata e piacevole ultima ossessione musicale: il cd MUSICA NUDA 55/21, dei bravissimi Petra Magoni e Ferruccio Spinetti.
Il duo jazz, autore del progetto musicale "Musica nuda", apre questo nuovo disco con un bellissimo brano di Pacifico (cantautore che adoro) e regala, oltre a delle singolari, delicate o virtuosissime versioni di canzoni più e meno note, anche dei pezzi inediti di notevole intensità e poeticità.
Qualcuno potrebbe storcere il naso ascoltando una versione così accelerata e nervosa di "Bocca di rosa", o pensare che superare Battiato stesso ne "La canzone dei vecchi amanti" rimanga una pia illusione. Ma c'è sempre un qualcosa di ipnotico nell'ascolto complessivo di un disco di Musica nuda: un misto di stupore per la bravura dei due artisti nonchè per la familiare diversità con cui la chiave jazz impreziosisce i classici già noti ed amati.
E se lo dice uno che il jazz non lo ascolta neanche più di tanto, vorrà pur dire qualcosa...